Laboratorio di Storia Locale

Leonardi Davide
Quali scelte? Quale Patria? Da alcuni casi romagnoli al dibattito attuale

Documentazione: gli articoli di stampa del marzo 2001 relativi al dibattito sulla Morte della Patria

 

"Ecco la mia idea di Patria."
Ciampi: a Cefalonia nacque l'Italia libera dal fascismo..

di Mario Pirani dalla "Repubblica" di sabato 3 marzo 2001

ROMA - "Non ho mai capito cosa intendano i teorici della 'morte della Patria', che indicano nell'8 settembre la data di questo lutto senza ritorno. A sentir loro la Patria, l'idea di Patria, che allora sarebbe stata travolta, non è mai risorta. E noi cosa saremmo, dunque, cittadini senza patria? Certo, ogni storico può pervenire alle deduzioni che vuole. Ma se pone un quesito di quel genere deve anche giungere ad una conclusione e, soprattutto, non può ignorare eventi come Cefalonia. Come ho detto rivolgendomi idealmente ai Caduti della Acqui: "Decideste consapevolmente il destino. Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia"
Ciampi, è nel suo studio al Quirinale, appena sceso dall'aereo che lo ha portato in quell'isola dove morirono trucidati 6500 soldati italiani della Divisione Acqui che avevano respinto l'intimazione alla resa e si erano battuti contro le forze tedesche, preponderanti soprattutto per l'appoggio aereo e navale, di cui i nostri erano del tutto privi. Poiché sull'episodio avevo scritto nel passato alcuni articoli il Presidente accetta, non una intervista, ma di parlarmi dei sentimenti e delle ragioni che lo hanno mosso.
Facciamo assieme quasi un'esegesi del discorso che ha pronunciato, un discorso inusuale, redatto di suo pugno e privo, persino, degli abituali preamboli e saluti iniziali ai presenti. No, questa volta, quasi si trattasse di un attacco sinfonico, il Presidente è entrato subito nel vivo, con tre fasi d'empito beethoveniano: "Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento".
A conferma del clima Ciampi si sofferma a descrivere le ore che ha passato, in compagnia anche del Presidente ellenico, fra i drappelli in armi, greci e italiani, la folta rappresentanza di reduci e partigiani, davanti al cippo ricordo, nel luoghi dei combattimenti, alle fosse comuni e in mare, sulla tolda della Garibaldi, in una mattina che sembrava venuta giù da una scenografia da melodramma epico, "tra squarci di sole, scrosci di pioggia, fulmini, raffiche di vento". Eppure, ripercorrendo il discorso, è possibile leggere in trasparenza i ricordi evidenti tra suggestioni emozionali e autentica passione politica, nel senso alto del termine.
Un discorso di Capo dello Stato ma anche un discorso personale, del cittadino Ciampi, del giovane militare di allora, venuto oggi, ormai ottantenne, a rievocare "quelli che ci furono compagni della giovinezza". E me lo dice esplicitamente: "Questa volta ho proprio parlato di quello che ho in cuore da una vita". Così la conversazione spazia tra la rievocazione generazionale, che accomuna il cronista e il Presidente, e il perché delle scelte di allora che lo affratellarono in "un uguale sentire" non solo ai soldati di Cefalonia, ma a quelli che "nell'Egeo, in Albania, in Corsica, in altri teatri di guerra, nei campi di internamento si rifiutarono di piegarsi e di collaborare, mentre le forze della Resistenza prendevano corpo sulle nostre montagne, nelle città. E, per significarmi il valore che attribuisce al comportamento dell'esercito mi mostra il libro che gli ha inviato Alessandro Natta, ex segretario del Pci, su "L'altra resistenza " (editore Einaudi), dedicato ai seicentomila militari internati dai tedeschi che rifiutarono di aderire a Salò.
Ma non si tratta dell'abbandono di un vecchio reduce all'onda commovente del ricordo. No, qui è anche il Ciampi di oggi che ripropone una periodizzazione della storia patria: "Quella scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza di un'Italia libera dal fascismo".
Quindi non solo patrimonio del movimento partigiano ma di un arco assai più vasto che poggiò, dal primo giorno, su una parte nient'affatto trascurabile delle Forze armate, su "noi che portavamo la divisa, che avevamo giurato e che volevamo mantener fede al nostro giuramento e che ci trovammo d'improvviso allo sbaraglio, privi di ordini, in un travaglio causato dal colpevole abbandono". In proposito, nella nostra conversazione, il Presidente ci tiene a soffermarsi sull'8 settembre, dando, a differenza di molti e in polemica con quanti sostengono che con la fuga di Pescara il re avrebbe tradito il Paese (un altro punto su cui poggia la tesi della morte della Patria), un giudizio positivo sul fatto che la Corona abbia assicurato la continuità delle istituzioni rifugiandosi in un territorio liberato dalla presenza tedesca. Il che permise al governo Badoglio di dichiarare guerra alla Germania, all'esercito di ricostituirsi e partecipare al conflitto. E poi, con il cadere della pregiudiziale antimonarchica grazie all'attività di Palmiro Togliatti, di costituire, con la partecipazione dei partiti antifascisti, prima il secondo governo Badoglio, poi, con la liberazione di Roma, il governo Bonomi, quindi, dopo il 25 Aprile, il governo Parri. Tutte tappe che segnano la continuità delle Istituzioni e della Patria. La condanna dei Savoia e di Badoglio resta senza scusanti per il modo con cui operarono, lasciando senza ordini e all'oscuro i comandi, senza guida l'Esercito e la Marina di fronte al prevedibile attacco tedesco.
"Basta pensare all'affondamento della corazzata Roma dove morirono 2000 uomini e l'ammiraglio Bergamini, capo della nostra flotta, fino a poche ore prima ignaro dell'armistizio".
Eppure, passato il primo momento di smarrimento, non solo molti, come Ciampi, furono in grado di orientarsi, guidati "dal senso dell'onore e dall'amor di Patria", ma essi furono sorretti dall'appoggio diffuso delle popolazioni nelle città e ancor più nelle campagne. Anche su questo punto l'insistenza non è pleonastica ma vuole sottolineare che la Resistenza non è riducibile, come tenta di presentarla la vulgata neo-revisionista, ad un fatto minoritario riguardante solo il partigianato combattente, ma un vastissimo movimento che coinvolgeva nei sentimenti, e spesso nella concreta solidarietà, la maggioranza degli italiani. "Ricordo, solo per fare un esempio fra i tanti, che quando ero rifugiato a Scanno, un piccolo paese abruzzese in provincia di Sulmona, in attesa di passare le linee, nascosto con me vi era un ebreo romano, Beniamino Sadun, ma mentre paventavamo l'arrivo di tedeschi o repubblichini, nessuno temeva una spiata di qualcuno degli abitanti, tanto vivo era il sostegno che sentivamo attorno a noi. Del resto lì vicino passava quello che veniva chiamato il sentiero della libertà, un impervio passaggio, attraverso il massiccio della Maiella, da dove tanti prigionieri anglo-americani transitarono con l'aiuto dei nostri contadini. Di lì passai anch'io per riandare ad indossare la divisa nell'esercito dell'Italia libera. Spero di tornarci fra qualche mese ad una cerimonia di commemorazione che si sta organizzando"
Il riaffiorare dei ricordi segue un filo ideale: l'amor di patria si è radicato nella nostra generazione dall' "aver maturato i valori e le gesta del Risorgimento". Anche a Cefalonia Ciampi ha voluto ripeterlo: "la fedeltà ai valori nazionali e risorgimentali diede compattezza alla scelta di combattere". E' evidente che non si tratta di un cedimento alla retorica ma di un richiamo politico ai vincoli fondativi dell'unità nazionale, proprio quando essi vengono messi in discussione dall'oltranzismo leghista, comunque camuffato, e dal revisionismo dell'ala integralista cattolica che al convegno di Rimini di Comunione e Liberazione ha contestato i valori del Risorgimento, rilanciando la critica clericale e sanfedista all'unità d'Italia.
Un altro punto da valutare nel discorso di Cefalonia è la componente antifascista, anche in questo caso ben pertinente e non certo di scontato ossequio al "politicamente corretto". Per contro un richiamo a non confondere la pacificazione degli animi con il giudizio storico e con una specie di pacificazione tra Salò e Resistenza: "In quell'estate del 1943 divenne chiaro in noi che il conflitto non era più fra gli Stati ma fra principi, fra valori. L'inaudito eccidio denota quanto profonda fosse la corruzione degli animi prodotta dall'ideologia nazista. Non dimentichiamo le tremende sofferenze della popolazione di Cefalonia e di tutta la Grecia, vittima di una guerra d'aggressione". Con queste frasi, mi dice poi Ciampi, "ho voluto ricordare che la rottura dell'Italia col fascismo non si è prodotta l'8 settembre, ma il 25 luglio, quando Mussolini venne defenestrato; in secondo luogo quale separazione, anche etica, passasse tra le forze in lotta; in terzo luogo, il carattere aggressivo che caratterizzava il fascismo. Questo non vuol dire coltivare gli odi. Proprio nei giorni scorsi una mia vecchia allieva (dopo la Liberazione feci per due anni l'insegnante) mi ha detto che ancora rammentava una lezione in cui auspicavo che la nuova Italia non si lasciasse trascinare nella spirale della vendetta. Mi viene, anzi, in mente ora un incontro in treno nel 1945 con un mio ex compagno di scuola. Gli dissi che ero andato ad arruolarmi al Sud, con l'esercito di Badoglio. Lui mi confessò di essere stato con le Brigate Nere. Convenimmo che per fortuna non ci eravamo incontrati in quei frangenti e ci stringemmo in un abbraccio."
Il Presidente va ancora indietro nei ricordi e conviene sul favore della sorte che lo portò molto giovane, poco più che sedicenne, alla Normale di Pisa dove ebbe come maestri uomini quali Luigi Russo, grande critico letterario e fra i maggiori esponenti dello storicismo, il filosofo Guido Calogero, fondatore del movimento liberal - socialista, che confluirà nel partito d'azione e il marxista Cesare Luporini, filosofo della scienza: " Fu una stagione di formazione culturale e politica, ad un tempo. Poi ci fu la guerra e io mi trovai nel '42 sottotenente in Albania. Solo per un permesso fortuito non fui colto dall'armistizio laggiù. Nel migliore dei casi avrei raggiunto i partigiani, come fecero tanti commilitoni, con in testa il nostro comandante, il tenente colonnello Mosconi, un nazionalista monarchico, seguace di Federzoni, che cadde combattendo contro i tedeschi. Dopo l'8 settembre con Furio Diaz (uno storico che diverrà anche sindaco comunista di Livorno) ci interrogavamo su come metterci in contatto con la resistenza. Venni a Roma, a casa di mio zio, il padre della scrittrice Paola Masino, che mi consigliava una prudente attesa, in un bell'appartamento di via Liegi 6. Non ne volli sapere e me ne andai, come ho detto, in Abruzzo, per passare le linee. Proprio a Scanno ritrovai Guido Calogero, che vi era stato confinato dal regime. Riprendemmo le nostre discussioni e gli chiedevo la ricetta per agire da antifascista senza diventare per forza comunista. Naturale punto d'approdo fu il partito d'azione. Quando arrivai finalmente dall'altra parte, a Bari, tornai ad indossare la divisa. La città era piena di fermenti. Vi era stato il convegno dei partiti antifascisti. Nelle ore libere frequentavo la libreria Laterza e m'infervoravo in discussioni con il leader azionista pugliese, poi del Pri, Michele Cifarelli, con il meridionalista Tommaso Fiore e suo figlio Vittore, ormai scomparsi. Quello, insomma, il terreno della mia iniziale formazione culturale. Questo dovrebbe anche spiegare i motivi che mi spingono a rivalutare i simboli dell'amor di patria, della continuità storica, dei valori del Risorgimento. Perché, ad esempio, ho voluto inaugurare l'anno scolastico sull'altare della Patria - lasciamo perdere se sia bello o brutto - non ignorando che lì c'è il monumento del re che unificò l'Italia e la scritta: all'unità della Patria e alla libertà dei cittadini"
Il presidente della Repubblica, prima di congedarmi, ci tiene a ribadire, a smentita di qualche forzatura giornalistica, che i passati governi non avevano affatto dimenticato Cefalonia: " Ci andarono e pronunciarono bellissimi discorsi sia Pertini che Spadolini. Ed anche il ministro socialista della Difesa, Lagorio. La strage era però sentita dagli italiani soprattutto come conseguenza tragica dell'8 settembre, non come l'inizio della Resistenza. Di nuovo questa volta c'è stata la presenza del presidente della Repubblica. E' stato importante che si ricordasse la lotta comune condotta con i partigiani di quel paese e la nostra condanna della guerra d'aggressione, intrapresa da Mussolini. E' stata una giornata di vero europeismo: in mezzo al Mediterraneo, in territorio ellenico e su una nave italiana."

Presidente, parliamo della Patria
di Ernesto Galli della Loggia dal "Corriere della sera" di domenica 4 marzo 2001.

Signor presidente,
in una lunga intervista - conversazione pubblicata ieri su "Repubblica", a commento del suo viaggio a Cefalonia, per rendere omaggio ai caduti della divisione Acqui, ella esordisce con queste parole: "Non ho mai capito cosa intendano i teorici della 'morte della Patria', che indicano nell'8 settembre la data di questo lutto senza ritorno. A sentir loro, la Patria, l'idea di Patria, che allora sarebbe stata travolta, non è mai risorta. E noi cosa saremmo dunque, oggi: italiani, cittadini senza Patria?".
Ebbene, come forse ella sa, capita che proprio io sia uno di quei " teorici" di cui lei parla (in ottima compagnia peraltro, a cominciare da Renzo De Felice e lndro Montanelli), che proprio io abbia ripescato l'espressione "morte della Patria" da un vecchio testo di Salvatore Satta, per farne il titolo prima di un mio saggio, poi di un libro, le cui tesi ella ha più volte, in questi ultimi tempi, contestato, ma forse mai con la sommaria perentorietà che ha usato in questa occasione e che, dunque, sollecita una risposta.
Come comprenderà, lo faccio con un certo disagio, infatti, io insegno da molti anni Storia contemporanea in una università della Repubblica, e non avrei mai immaginato, signor presidente, di essere costretto, un giorno, a dover discutere i risultati della mia ricerca con il capo dello Stato, di dover rendere conto a lui di quei medesimi risultati; di doverli difendere dalle critiche della più alta carica politica del mio Paese.
Ho sempre pensato e continuo a pensare, all'opposto, che in una democrazia non è compito dei politici - in specie di chi vi copre importanti ruoli istituzionali - dire la propria nel merito di complessi problemi storiografici, né tanto meno esprimere le proprie personali preferenze per questa o quella interpretazione del passato: con l'eventuale, ma a quel punto logicamente inevitabile, conseguenza di censurare, di fatto, i libri e i manuali che le divulgano.
Ma lei è, evidentemente, convinto del contrario, signor presidente, e lo ha più volte dimostrato nella maniera più altisonante, come appunto ha fatto ieri.
Leggendo con attenzione le sue parole, io non riesco a liberarmi dal sospetto, tuttavia, che ella abbia frainteso le tesi dei "teorici" che critica. Non le sarebbe sfuggito, altrimenti, signor presidente, quello che è l'aspetto centrale e decisivo della questione della "morte della Patria". Che non riguarda affatto l'8 settembre, se non come punto di partenza analitico, ma ha come oggetto, vero e principale, i molti decenni che seguirono quella data: cioè il clima politico, ideologico, culturale che ha caratterizzato almeno mezzo secolo di vita repubblicana. Mi spiegherò con un esempio: lo sa, signor presidente, che nel volume "Una guerra civile" di Claudio Pavone - il quale pure scrive, oggi, che Cefalonia fu "tra gli atti fondativi della Resistenza" - ebbene lo sa che, in quel libro di 800 pagine, uscito nel 1991, della strage di Cefalonia, di come essa avvenne e perché, non si dice nulla? Che il nome del generale Gandin e quello del capitano Pampaloni neppure vi sono ricordati di sfuggita?
Ecco cosa è stata la "morte della Patria", signor presidente. Il fatto che - ancora dieci anni fa - nel libro, pur per molti versi ottimo, di uno storico di valore, i morti dopo l'8 settembre del Regio Esercito, morti spesso in nome del Re, godevano di un'attenzione e considerazione minori (molto, molto minori: fino al silenzio) di quelli dei partiti antifascisti, dei morti partigiani.
Dunque, quando nell'intervista a "Repubblica" ella chiede ai teorici della "morte della Patria" in qual modo essi possano ignorare eventi come Cefalonia, lei, signor presidente, si rivolge alle persone sbagliate. Ad altri va rivolta quella domanda, o meglio andava rivolta: dal momento che oggi anche i dimentichi di ieri, anche loro, hanno scoperto Cefalonia e la resistenza militare, affrettandosi a dargli il rilievo che l'una e l'altra meritano. Oggi, però. Controlli, signor presidente: vada a vedere quante volte e come è ricordata la strage di Cefalonia nei libri sulla Resistenza che uscivano fino a qualche anno fa.
Proprio ricordando la strage di Cefalonia e quella di Porzus; via Rasella e il dramma del confine orientale; l'assenza del Mezzogiorno e la presenza di una massiccia "zona grigia": proprio ricordando quanti fatti del 1943-45 siano stati poi dimenticati o "addomesticati" per anni, dalla vulgata corrente tutta ispirata dalla sinistra; proprio ricordando a quali e quante pochezze, divisioni e contraddizioni laceranti la Resistenza dovette in realtà assistere; proprio su tale base, qualcuno è arrivato a concludere che essa - pur con tutto l'afflato patriottico di chi vi prese parte - non riuscì, né poteva riuscire a produrre il radicamento, nell'ltalia repubblicana, di un forte sentimento nazionale, in sostituzione di quello andato distrutto con il fascismo e la sconfitta bellica.
È accaduto così che, per cinquant'anni, l'ltalia sia stata una democrazia senza nazione, senza "patria", appunto. Un Paese in cui la patria era morta. Non lo crede anche lei, signor presidente? Davvero lei pensa che, invece, nel nostro Paese ci sia stato un vero sentimento patriottico, un vero e diffuso sentimento nazionale? Ma - mi chiedo e rispettosamente le chiedo - da quale singolare spirito nazional - patriottico era animato, un Paese in cui metà dei cittadini ha temuto per anni di essere arrestata, deportata e magari fatta fuori dall'altra metà? In cui nessuna scelta di politica estera è stata fatta con il consenso di tutti? Che "patria" era, quella in cui influenze straniere hanno potuto fare quasi tutto ciò che volevano? Dove l'esercito e le forze di polizia sono stati considerati - per decenni, da molti, da moltissimi - non simbolo di unità bensì di divisione e di pericolo per la democrazia? Dove, dalla memoria della Resistenza, erano virtualmente espulsi i morti politicamente sgraditi o indifferenti al Cln, ma caduti anch'essi in nome dell'ltalia? E del resto, signor presidente, se per mezzo secolo avessimo davvero avuto una patria, se per tutto questo tempo ci fossimo tutti davvero riconosciuti in un inno e in una bandiera, animati da un vero spirito di solidarietà nazionale, se tutto ciò - come bisognerebbe desumere dalle sue parole - fosse stato vero, a che pro allora il suo lodevole sforzo, dal momento in cui è entrato in carica, per riaccreditare bandiera e inno, monumenti e sentimenti della patria? A che pro questo continuo parlare che lei fa di nazione e d'Italia? E che senso avrebbero mai la novità e il merito che, per tutto ciò, l'opinione pubblica volentieri le riconosce, se da sempre avessimo dimestichezza con gesti come quelli che lei compie, con parole come quelle che lei pronuncia?
Come italiano, penso che sia una fortuna che lei oggi possa compiere quei gesti e pronunciare quelle parole. È il segno che, forse, è finalmente finito il lungo dopoguerra ed è iniziata un'altra e nuova stagione; che, caduto il comunismo, tutti i muri sono caduti, anche quelli che cosi a lungo ci hanno separati dalla nostra Patria.
Ma tra i doveri degli storici non c'è quello di essere patriottici. Gli storici hanno semplicemente il dovere di studiare il passato, di salvarlo alla memoria ricostruendolo secondo la loro capacità e la loro coscienza, senza farsi influenzare dalle mode e dalle necessità dell'oggi, senza prestare ascolto alle suggestioni dell'ora. E naturalmente hanno il dovere di non farsi condizionare dalle polemiche aggressive di chicchessia, fossero anche le sue, signor presidente. Con il massimo rispetto.

Io, la Patria e i doveri di testimone
di Carlo Azeglio Ciampi, dal "Corriere della Sera" di lunedì 5 marzo 2001

Chiarissimo Professore,
non sono uno storico, non intendo sostituirmi agli storici. Ho vissuto, come giovane ufficiale di complemento, le drammatiche vicende del 1943: sono quindi, e so di essere, soltanto un testimone. Ho vissuto il collasso dello Stato; ho vissuto lo smarrimento dell'assenza di "ordini" in un momento, credo, il più tragico nella storia della nostra Italia. Come tanti altri nelle mie condizioni, trovammo nelle nostre coscienze l'orientamento: in quelle coscienze vibrava profondo il senso della Patria. Questo intendo dire con la mia testimonianza di cittadino. La mia successiva esperienza al servizio dello Stato per oltre cinquant'anni non mi consente di condividere l'opinione che, per tutto quel periodo, pur così travagliato, l'Italia sia stata "una democrazia senza Patria".
Come Presidente della Repubblica Italiana, sin dal primo giorno del mandato, ho ritenuto di dover esprimere con immediatezza il mio animo. Ho avvertito come spontanea risposta degli italiani un forte desiderio di riconoscersi nell'affermazione di valori condivisi. Di qui il consenso e la partecipazione a ogni iniziativa che attesti pubblicamente quei valori, senza retorica ma con puntuali richiami a istituzioni, fatti, episodi.
Amo la lettura dei libri di storia. Ho grande rispetto per il lavoro, documentario e interpretativo, degli storici. So quanto siano essenziali, nell'uno e nell'altro aspetto, l'autonomia di ricerca e di giudizio, la ripulsa di ogni condizionamento. Sono valori che fanno parte costitutiva dell'etica civile, sulla cui solidità si fonda la stessa unità nazionale.
Non ritengo però che sia di esclusiva competenza degli storici di professione il riflettere sul passato.
È da questa riflessione che ogni cittadino, e ancor più chi ha responsabilità politiche o istituzionali, deve trarre ispirazione per il proprio impegno civile, per il proprio operare. Rendere poi note queste riflessioni e valutazioni non è un atto censorio, ma un atto dovuto. Vuole contribuire a tener vivo nei cittadini un forte senso della Patria. Sono lieto che Lei esprima in proposito un giudizio positivo.
Con viva cordialità,
Carlo Azeglio Ciampi

Quell'ideale che ci portò in montagna
di Giorgio Bocca, su "la Repubblica" di lunedì 5 marzo 2001

Il fascismo, la guerra, la sconfitta, l'occupazione nazista, la volontà di esistere come nazione, come paese civile con la Resistenza, non sono giudicabili da chi li visse e soffrì di persona: come il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, come coloro che, per venti mesi, rischiarono la vita perché sentivano che la patria non era morta e che bisognava subito testimoniarne la sua continuità?
No, pare che chi possa giudicarne sia solo uno storico revisionista come Ernesto Galli della Loggia: per la ragione che lui è - come scrive sul "Corriere della Sera", "professore di storia contemporanea all'università, un teorico in ottima compagnia a cominciare da Renzo De Felice e Indro Montanelli". Davvero? È' quasi mezzo secolo che cerco di spiegare, al mio collega Montanelli, che la guerra partigiana ci fu, e coinvolse milioni di italiani, e ai revisionisti che fu una guerra di popolo e non solo una congiura comunista.
Queste sono cose che sa benissimo chi alla guerra partigiana prese parte e che finge di ignorare chi ne discute solo ora, nella vigilia elettorale in cui pare si debba sostenere che i comunisti erano degli antipatria e i partigiani di altro colore degli utili idioti.
Noi che non apparteniamo alla corporazione dei cattedratici come il nobile Ernesto Galli della Loggia abbiamo, teoricamente, una idea vaga di cosa è la Patria, ma possiamo assicurargli che questa incerta nozione, questo immaginario legame, questa retorica illusione esiste: e spinse un popolo come il nostro, che odiava la guerra, a raccogliere l'otto settembre del '43 le stellette militari che l'esercito in rotta aveva buttato nel fango e a iniziare una guerra di popolo.
Scrivere saggi revisionisti sulla guerra partigiana, inventata dai comunisti, gonfiata dalla falsa storia paracomunista - diciamo: la storia di una minoranza di mezzi delinquenti che, come si legge nelle ultime sensazionali rivelazioni, pubblicate con risalto anche da giornali che si definiscono antifascisti e democratici - altro non era che una cospirazione agli ordini di Mosca, e scriverlo in una vigilia elettorale in cui l'anticomunismo più beota viene usato a piene mani, per giustificare il possibile ritorno al governo dei fascisti, non ci sembra un'onesta revisione della storia, ma il solito salto sul carro del possibile vincitore.
Questo revisionismo che impartisce lezioni di oggettività e di autonomia, ignora il fondamento della storia, o almeno il tentativo di fare una storia onesta: il contesto, il collocare i fatti nel loro tempo. Piero Gobetti viene rievocato a uso elettorale come un leninista, un sostenitore della violenza politica. Dimenticando chi viveva, come vittima, la dittatura fascista e che la rivoluzione di ottobre, negli anni Venti, appariva al mondo intero come una grande utopia. Come se venisse rimproverato a uno della rivoluzione francese di non aver capito l'esito imperialista di Napoleone. E, fatte le debite proporzioni, l'accusa a Bobbio e agli azionisti di essere stati, nel primo dopoguerra, filocomunisti come se non fosse in atto la restaurazione del vecchio Stato.
Lasciamola stare la storia perfetta, riserva dei cattedratici alla Galli della Loggia. Parliamo della storia strumentale, propagandistica. Ce ne fu una che piaceva al Partito comunista? Si, ci fu. A questa storia conveniva esaltare il contributo dei comunisti alla Resistenza e mettere in ombra episodi come quello di Cefalonia, in qualche modo legati all'esercito " badogliano"? Si, ci fu. Ma dedurre da episodi che appartengono alla lotta politica, alle avverse propagande, la prova che, per questo, la Patria era morta, è perdere il senso della misura e dimenticare che l'idea della Patria è diversa e sovrastante a quella della lotta politica. Trattasi di un'idea troppo semplice per i cattedratici revisionisti. Trattasi dell'idea di cui parla una canzone popolare: "E una mattina mi sono alzato e ho trovato l'invasor". Tutto qui. L'idea che nessuno può venire in casa nostra a farla da padrone, che - qualsiasi siano le nostre idee di parte - può far violenza alla nostra storia, alla nostra libertà. Comunque sono rassegnato, non riuscirò mai a convincere il professor Galli della Loggia che - in quell'otto settembre del '43 in cui salivamo in montagna - l'idea di Patria non solo era viva ma l'unica esistente, nella nostra testa di ragazzi usciti dalla dittatura: l'idea che la Patria era viva come non mai, tanto che ci convinceva a iniziare una guerra impari, una guerra senza prigionieri.

L'ossessione della Patria negata
di Eugenio Scalfari, da "la Repubblica" di domenica 11 marzo 2001

Che cosa è accaduto in quel cinquantennio che arriva fino ai giorni nostri? Molto semplice e molto chiaro per della Loggia: c'è stata in Italia un'egemonia culturale comunista, anzi della sinistra perché ai comunisti vanno affiancati i membri del partito socialista, del Partito d'azione e quant'altri pur non comunisti o addirittura anticomunisti si riconobbero nella Resistenza e in essa videro il momento ri-fondativo della patria dopo il fascismo e la sconfitta. Quell'egemonia culturale impedì che il radicamento popolare dell'idea di patria avesse luogo. La prova di quest'assunto sta per della Loggia nel fatto che la pubblicistica repubblicana abbia ignorato, anzi sottaciuto fatti come la strage nazista dei soldati della divisione Aqui a Cefalonia perché "quei morti erano sgraditi o indifferenti ai propalatori dell'egemonia resistenziale." Ma l'omissione di Cefalonia è soltanto un sintomo. C'è stato ben altro: "Mi chiedo - scrive il Nostro- da quale sentimento nazional patriottico era animato un paese in cui metà dei cittadini ha temuto per anni di essere arrestata, deportata e magari fatta fuori da quell'altra? In cui nessuna scelta di politica estera è stata fatta col consenso di tutti?" La lettera termina bacchettando "rispettosamente" il Capo dello Stato per essersi permesso di metter bocca in un problema eminentemente storiografico e insomma d'aver criticato e "intimidito" uno storico insigne come il firmatario di quella pubblica missiva.
Mi sono fatto alcune domande sul cinquantennio repubblicano configurato così sinistramente dal della Loggia. Non avendo io cariche pubbliche penso che l'autore della lettera mi permetterà di porle senza per questo sentirsi censurato nella sua attività storiografica.
La prima domanda è proprio su quella presunta attività. C'è modo, storiograficamente intendo, di accertare scientificamente e quantificare un sentimento? Nella fattispecie il sentimento nazional-patriottico degli italiani?
Ebbene questo modo non esiste perché i sentimenti sono fatti individuali che ciascuno esprime come può e vuole e mal si prestano ad essere scientificamente registrati sia per negarne, sia per affermarne l'esistenza. La storia è sempre interpretazione dei fatti e come tale contestabile; figurarsi poi quando non si tratta di fatti ma di sentimenti.
Della Loggia pensa che quel sentimento non ci sia stato, altri può pensare l'opposto. La storiografia non c'entra nulla e nulla, salvo il suo personale modo di sentire, può portare lo storico a conferma di ciò che egli, con molta presunzione, attribuisce ad una collettività di cinquanta milioni di persone.
Seconda domanda. Metà degli italiani temeva di essere fatta fuori dall'altra durante tutto il cinquantennio di cui si discute. Ma ne è sicuro il mittente della lettera? Quale metà aveva questo timore? O erano tutte e due le metà che temevano per la propria sorte fisica e per la propria libertà?
Secondo le fantasie oniriche direi di chi pensa in questo modo 50 milioni di persone per mezzo secolo hanno vissuto in un paese da incubo, attanagliati dalla paura di essere arrestati, deportati, scannati. Il vero lager da fare invidia a quelli nazisti o sovietici sarebbe dunque stato l'Italia: un paese terrorizzato, nevrotizzato, con porte e finestre sbarrate contro gli sgherri addestrati a uccidere gli avversari. Questo è il paese in cui abbiamo vissuto dal 1945 ad oggi? A chi venisse a raccontarci fandonie di questo tipo si risponderebbe che la sua è una fantasia malata. Tale mi sembra l'immagine che della Loggia fornisce di un paese - ghetto di terrorizzati.
C'è di vero che subito dopo il 25 aprile e per alcuni mesi, specie in certe zone dell'Emilia Romagna, ci furono molte vendette politiche e talune perfino private come seguiti della guerra partigiana. Furono seguiti terribili, per fortuna di breve durata. Successivamente venne il periodo dello stragismo e poi ancora quello delle Br, ma si trattò di fenomeni di natura diversa anche se drammatica. Il terrorismo, quale che ne sia il colore, è infatti cosa diversa dalla descrizione d'un paese in uno stato perenne di guerra civile; ce lo prova l'Inghilterra da decenni alle prese con l'Ira e la Spagna da decenni alle prese con l'ETA. Aggiungo che sia lo stragismo che le Br contribuirono semmai a cementare la comunità nazionale e le forze politiche in una difesa comune delle istituzioni democratiche che hanno retto a una prova durissima e l'hanno superata.
Potrei infine ricordare l'atteggiamento di responsabilità del Pci nel momento dell'attentato a Togliatti e la simmetrica posizione della dirigenza democristiana che seppe contrastare ogni suggestione interna ed estera a mettere fuori legge i suoi avversari politici, suggestione più volte riaffiorata nel corso degli anni e più volte battuta.
Fin qui le mie domande e, per quel che valgono, le mie risposte anche se non vanto i titoli accademici dell'egregio autore della lettera al Presidente.
Ma voglio aggiungere ancora una considerazione. L'amor di Patria non riguarda o non riguarda soltanto il territorio , o l'etnia, ammesso che esista un'etnia italiana. L'amor di Patria deriva da un'idea di paese. Gli ufficiali tedeschi che attentarono alla vita di Hitler avevano un'altra idea di paese; gli antifascisti italiani che condussero azioni clandestine durante il ventennio avevano un'altra idea di paese. Tutti coloro - e furono moltissimi - che tra il '40 e il '43 auspicarono la vittoria degli anglo-americani avevano un'altra idea di paese e un'altra idea di paese avevano le popolazioni italiane di tutte le regioni quando solidarizzarono concretamente con gli ufficiali e i soldati sbandati, i prigionieri alleati evasi dai carceri fascisti, i partigiani combattenti sui monti.
La nostra repubblica, per fortuna e malgrado le tante insufficienze e traversie, è stata fin dall'inizio una realtà democratica dove le libertà fondamentali sono state garantite a tutti. Certo, un paese segnato dalla guerra e a sovranità limitata; il che non gli ha impedito di crescere fino ad assumere un ruolo ed un peso economico e politico.
Questo ruolo e questo "status" risultano purtroppo indifferenti oggi ad una larga parte di cittadini "impolitici", giovani per lo più. Ma questa situazione, del resto diffusa in gran parte dell'Occidente e del pianeta, non ha a che fare con i risultati storiografici realizzati dal professor della Loggia. L'egemonia culturale della sinistra non c'entra. Le radici di quell'indifferenza sono ben altre e varrebbe la pena di applicarsi al loro studio, egregio professore. Ma ognuno, si sa, è vittima delle proprie ossessioni dalle quali è molto difficile uscire.