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"Ecco
la mia idea di Patria."
Ciampi: a Cefalonia nacque l'Italia libera dal fascismo..
di Mario Pirani dalla "Repubblica" di sabato 3 marzo 2001
ROMA - "Non ho mai capito
cosa intendano i teorici della 'morte della Patria', che indicano nell'8
settembre la data di questo lutto senza ritorno. A sentir loro la Patria,
l'idea di Patria, che allora sarebbe stata travolta, non è mai
risorta. E noi cosa saremmo, dunque, cittadini senza patria? Certo, ogni
storico può pervenire alle deduzioni che vuole. Ma se pone un quesito
di quel genere deve anche giungere ad una conclusione e, soprattutto,
non può ignorare eventi come Cefalonia. Come ho detto rivolgendomi
idealmente ai Caduti della Acqui: "Decideste consapevolmente il destino.
Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione,
ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia"
Ciampi, è nel suo studio al Quirinale, appena sceso dall'aereo
che lo ha portato in quell'isola dove morirono trucidati 6500 soldati
italiani della Divisione Acqui che avevano respinto l'intimazione alla
resa e si erano battuti contro le forze tedesche, preponderanti soprattutto
per l'appoggio aereo e navale, di cui i nostri erano del tutto privi.
Poiché sull'episodio avevo scritto nel passato alcuni articoli
il Presidente accetta, non una intervista, ma di parlarmi dei sentimenti
e delle ragioni che lo hanno mosso.
Facciamo assieme quasi un'esegesi del discorso che ha pronunciato, un
discorso inusuale, redatto di suo pugno e privo, persino, degli abituali
preamboli e saluti iniziali ai presenti. No, questa volta, quasi si trattasse
di un attacco sinfonico, il Presidente è entrato subito nel vivo,
con tre fasi d'empito beethoveniano: "Decisero di non cedere le armi.
Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento".
A conferma del clima Ciampi si sofferma a descrivere le ore che ha passato,
in compagnia anche del Presidente ellenico, fra i drappelli in armi, greci
e italiani, la folta rappresentanza di reduci e partigiani, davanti al
cippo ricordo, nel luoghi dei combattimenti, alle fosse comuni e in mare,
sulla tolda della Garibaldi, in una mattina che sembrava venuta giù
da una scenografia da melodramma epico, "tra squarci di sole, scrosci
di pioggia, fulmini, raffiche di vento". Eppure, ripercorrendo il
discorso, è possibile leggere in trasparenza i ricordi evidenti
tra suggestioni emozionali e autentica passione politica, nel senso alto
del termine.
Un discorso di Capo dello Stato ma anche un discorso personale, del cittadino
Ciampi, del giovane militare di allora, venuto oggi, ormai ottantenne,
a rievocare "quelli che ci furono compagni della giovinezza".
E me lo dice esplicitamente: "Questa volta ho proprio parlato di
quello che ho in cuore da una vita". Così la conversazione
spazia tra la rievocazione generazionale, che accomuna il cronista e il
Presidente, e il perché delle scelte di allora che lo affratellarono
in "un uguale sentire" non solo ai soldati di Cefalonia, ma
a quelli che "nell'Egeo, in Albania, in Corsica, in altri teatri
di guerra, nei campi di internamento si rifiutarono di piegarsi e di collaborare,
mentre le forze della Resistenza prendevano corpo sulle nostre montagne,
nelle città. E, per significarmi il valore che attribuisce al comportamento
dell'esercito mi mostra il libro che gli ha inviato Alessandro Natta,
ex segretario del Pci, su "L'altra resistenza " (editore Einaudi),
dedicato ai seicentomila militari internati dai tedeschi che rifiutarono
di aderire a Salò.
Ma non si tratta dell'abbandono di un vecchio reduce all'onda commovente
del ricordo. No, qui è anche il Ciampi di oggi che ripropone una
periodizzazione della storia patria: "Quella scelta consapevole fu
il primo atto della Resistenza di un'Italia libera dal fascismo".
Quindi non solo patrimonio del movimento partigiano ma di un arco assai
più vasto che poggiò, dal primo giorno, su una parte nient'affatto
trascurabile delle Forze armate, su "noi che portavamo la divisa,
che avevamo giurato e che volevamo mantener fede al nostro giuramento
e che ci trovammo d'improvviso allo sbaraglio, privi di ordini, in un
travaglio causato dal colpevole abbandono". In proposito, nella nostra
conversazione, il Presidente ci tiene a soffermarsi sull'8 settembre,
dando, a differenza di molti e in polemica con quanti sostengono che con
la fuga di Pescara il re avrebbe tradito il Paese (un altro punto su cui
poggia la tesi della morte della Patria), un giudizio positivo sul fatto
che la Corona abbia assicurato la continuità delle istituzioni
rifugiandosi in un territorio liberato dalla presenza tedesca. Il che
permise al governo Badoglio di dichiarare guerra alla Germania, all'esercito
di ricostituirsi e partecipare al conflitto. E poi, con il cadere della
pregiudiziale antimonarchica grazie all'attività di Palmiro Togliatti,
di costituire, con la partecipazione dei partiti antifascisti, prima il
secondo governo Badoglio, poi, con la liberazione di Roma, il governo
Bonomi, quindi, dopo il 25 Aprile, il governo Parri. Tutte tappe che segnano
la continuità delle Istituzioni e della Patria. La condanna dei
Savoia e di Badoglio resta senza scusanti per il modo con cui operarono,
lasciando senza ordini e all'oscuro i comandi, senza guida l'Esercito
e la Marina di fronte al prevedibile attacco tedesco.
"Basta pensare all'affondamento della corazzata Roma dove morirono
2000 uomini e l'ammiraglio Bergamini, capo della nostra flotta, fino a
poche ore prima ignaro dell'armistizio".
Eppure, passato il primo momento di smarrimento, non solo molti, come
Ciampi, furono in grado di orientarsi, guidati "dal senso dell'onore
e dall'amor di Patria", ma essi furono sorretti dall'appoggio diffuso
delle popolazioni nelle città e ancor più nelle campagne.
Anche su questo punto l'insistenza non è pleonastica ma vuole sottolineare
che la Resistenza non è riducibile, come tenta di presentarla la
vulgata neo-revisionista, ad un fatto minoritario riguardante solo il
partigianato combattente, ma un vastissimo movimento che coinvolgeva nei
sentimenti, e spesso nella concreta solidarietà, la maggioranza
degli italiani. "Ricordo, solo per fare un esempio fra i tanti, che
quando ero rifugiato a Scanno, un piccolo paese abruzzese in provincia
di Sulmona, in attesa di passare le linee, nascosto con me vi era un ebreo
romano, Beniamino Sadun, ma mentre paventavamo l'arrivo di tedeschi o
repubblichini, nessuno temeva una spiata di qualcuno degli abitanti, tanto
vivo era il sostegno che sentivamo attorno a noi. Del resto lì
vicino passava quello che veniva chiamato il sentiero della libertà,
un impervio passaggio, attraverso il massiccio della Maiella, da dove
tanti prigionieri anglo-americani transitarono con l'aiuto dei nostri
contadini. Di lì passai anch'io per riandare ad indossare la divisa
nell'esercito dell'Italia libera. Spero di tornarci fra qualche mese ad
una cerimonia di commemorazione che si sta organizzando"
Il riaffiorare dei ricordi segue un filo ideale: l'amor di patria si è
radicato nella nostra generazione dall' "aver maturato i valori e
le gesta del Risorgimento". Anche a Cefalonia Ciampi ha voluto ripeterlo:
"la fedeltà ai valori nazionali e risorgimentali diede compattezza
alla scelta di combattere". E' evidente che non si tratta di un cedimento
alla retorica ma di un richiamo politico ai vincoli fondativi dell'unità
nazionale, proprio quando essi vengono messi in discussione dall'oltranzismo
leghista, comunque camuffato, e dal revisionismo dell'ala integralista
cattolica che al convegno di Rimini di Comunione e Liberazione ha contestato
i valori del Risorgimento, rilanciando la critica clericale e sanfedista
all'unità d'Italia.
Un altro punto da valutare nel discorso di Cefalonia è la componente
antifascista, anche in questo caso ben pertinente e non certo di scontato
ossequio al "politicamente corretto". Per contro un richiamo
a non confondere la pacificazione degli animi con il giudizio storico
e con una specie di pacificazione tra Salò e Resistenza: "In
quell'estate del 1943 divenne chiaro in noi che il conflitto non era più
fra gli Stati ma fra principi, fra valori. L'inaudito eccidio denota quanto
profonda fosse la corruzione degli animi prodotta dall'ideologia nazista.
Non dimentichiamo le tremende sofferenze della popolazione di Cefalonia
e di tutta la Grecia, vittima di una guerra d'aggressione". Con queste
frasi, mi dice poi Ciampi, "ho voluto ricordare che la rottura dell'Italia
col fascismo non si è prodotta l'8 settembre, ma il 25 luglio,
quando Mussolini venne defenestrato; in secondo luogo quale separazione,
anche etica, passasse tra le forze in lotta; in terzo luogo, il carattere
aggressivo che caratterizzava il fascismo. Questo non vuol dire coltivare
gli odi. Proprio nei giorni scorsi una mia vecchia allieva (dopo la Liberazione
feci per due anni l'insegnante) mi ha detto che ancora rammentava una
lezione in cui auspicavo che la nuova Italia non si lasciasse trascinare
nella spirale della vendetta. Mi viene, anzi, in mente ora un incontro
in treno nel 1945 con un mio ex compagno di scuola. Gli dissi che ero
andato ad arruolarmi al Sud, con l'esercito di Badoglio. Lui mi confessò
di essere stato con le Brigate Nere. Convenimmo che per fortuna non ci
eravamo incontrati in quei frangenti e ci stringemmo in un abbraccio."
Il Presidente va ancora indietro nei ricordi e conviene sul favore della
sorte che lo portò molto giovane, poco più che sedicenne,
alla Normale di Pisa dove ebbe come maestri uomini quali Luigi Russo,
grande critico letterario e fra i maggiori esponenti dello storicismo,
il filosofo Guido Calogero, fondatore del movimento liberal - socialista,
che confluirà nel partito d'azione e il marxista Cesare Luporini,
filosofo della scienza: " Fu una stagione di formazione culturale
e politica, ad un tempo. Poi ci fu la guerra e io mi trovai nel '42 sottotenente
in Albania. Solo per un permesso fortuito non fui colto dall'armistizio
laggiù. Nel migliore dei casi avrei raggiunto i partigiani, come
fecero tanti commilitoni, con in testa il nostro comandante, il tenente
colonnello Mosconi, un nazionalista monarchico, seguace di Federzoni,
che cadde combattendo contro i tedeschi. Dopo l'8 settembre con Furio
Diaz (uno storico che diverrà anche sindaco comunista di Livorno)
ci interrogavamo su come metterci in contatto con la resistenza. Venni
a Roma, a casa di mio zio, il padre della scrittrice Paola Masino, che
mi consigliava una prudente attesa, in un bell'appartamento di via Liegi
6. Non ne volli sapere e me ne andai, come ho detto, in Abruzzo, per passare
le linee. Proprio a Scanno ritrovai Guido Calogero, che vi era stato confinato
dal regime. Riprendemmo le nostre discussioni e gli chiedevo la ricetta
per agire da antifascista senza diventare per forza comunista. Naturale
punto d'approdo fu il partito d'azione. Quando arrivai finalmente dall'altra
parte, a Bari, tornai ad indossare la divisa. La città era piena
di fermenti. Vi era stato il convegno dei partiti antifascisti. Nelle
ore libere frequentavo la libreria Laterza e m'infervoravo in discussioni
con il leader azionista pugliese, poi del Pri, Michele Cifarelli, con
il meridionalista Tommaso Fiore e suo figlio Vittore, ormai scomparsi.
Quello, insomma, il terreno della mia iniziale formazione culturale. Questo
dovrebbe anche spiegare i motivi che mi spingono a rivalutare i simboli
dell'amor di patria, della continuità storica, dei valori del Risorgimento.
Perché, ad esempio, ho voluto inaugurare l'anno scolastico sull'altare
della Patria - lasciamo perdere se sia bello o brutto - non ignorando
che lì c'è il monumento del re che unificò l'Italia
e la scritta: all'unità della Patria e alla libertà dei
cittadini"
Il presidente della Repubblica, prima di congedarmi, ci tiene a ribadire,
a smentita di qualche forzatura giornalistica, che i passati governi non
avevano affatto dimenticato Cefalonia: " Ci andarono e pronunciarono
bellissimi discorsi sia Pertini che Spadolini. Ed anche il ministro socialista
della Difesa, Lagorio. La strage era però sentita dagli italiani
soprattutto come conseguenza tragica dell'8 settembre, non come l'inizio
della Resistenza. Di nuovo questa volta c'è stata la presenza del
presidente della Repubblica. E' stato importante che si ricordasse la
lotta comune condotta con i partigiani di quel paese e la nostra condanna
della guerra d'aggressione, intrapresa da Mussolini. E' stata una giornata
di vero europeismo: in mezzo al Mediterraneo, in territorio ellenico e
su una nave italiana."
Presidente,
parliamo della Patria
di Ernesto Galli della Loggia dal "Corriere della sera" di
domenica 4 marzo 2001.
Signor presidente,
in una lunga intervista - conversazione pubblicata ieri su "Repubblica",
a commento del suo viaggio a Cefalonia, per rendere omaggio ai caduti
della divisione Acqui, ella esordisce con queste parole: "Non ho
mai capito cosa intendano i teorici della 'morte della Patria', che indicano
nell'8 settembre la data di questo lutto senza ritorno. A sentir loro,
la Patria, l'idea di Patria, che allora sarebbe stata travolta, non è
mai risorta. E noi cosa saremmo dunque, oggi: italiani, cittadini senza
Patria?".
Ebbene, come forse ella sa, capita che proprio io sia uno di quei "
teorici" di cui lei parla (in ottima compagnia peraltro, a cominciare
da Renzo De Felice e lndro Montanelli), che proprio io abbia ripescato
l'espressione "morte della Patria" da un vecchio testo di Salvatore
Satta, per farne il titolo prima di un mio saggio, poi di un libro, le
cui tesi ella ha più volte, in questi ultimi tempi, contestato,
ma forse mai con la sommaria perentorietà che ha usato in questa
occasione e che, dunque, sollecita una risposta.
Come comprenderà, lo faccio con un certo disagio, infatti, io insegno
da molti anni Storia contemporanea in una università della Repubblica,
e non avrei mai immaginato, signor presidente, di essere costretto, un
giorno, a dover discutere i risultati della mia ricerca con il capo dello
Stato, di dover rendere conto a lui di quei medesimi risultati; di doverli
difendere dalle critiche della più alta carica politica del mio
Paese.
Ho sempre pensato e continuo a pensare, all'opposto, che in una democrazia
non è compito dei politici - in specie di chi vi copre importanti
ruoli istituzionali - dire la propria nel merito di complessi problemi
storiografici, né tanto meno esprimere le proprie personali preferenze
per questa o quella interpretazione del passato: con l'eventuale, ma a
quel punto logicamente inevitabile, conseguenza di censurare, di fatto,
i libri e i manuali che le divulgano.
Ma lei è, evidentemente, convinto del contrario, signor presidente,
e lo ha più volte dimostrato nella maniera più altisonante,
come appunto ha fatto ieri.
Leggendo con attenzione le sue parole, io non riesco a liberarmi dal sospetto,
tuttavia, che ella abbia frainteso le tesi dei "teorici" che
critica. Non le sarebbe sfuggito, altrimenti, signor presidente, quello
che è l'aspetto centrale e decisivo della questione della "morte
della Patria". Che non riguarda affatto l'8 settembre, se non come
punto di partenza analitico, ma ha come oggetto, vero e principale, i
molti decenni che seguirono quella data: cioè il clima politico,
ideologico, culturale che ha caratterizzato almeno mezzo secolo di vita
repubblicana. Mi spiegherò con un esempio: lo sa, signor presidente,
che nel volume "Una guerra civile" di Claudio Pavone - il quale
pure scrive, oggi, che Cefalonia fu "tra gli atti fondativi della
Resistenza" - ebbene lo sa che, in quel libro di 800 pagine, uscito
nel 1991, della strage di Cefalonia, di come essa avvenne e perché,
non si dice nulla? Che il nome del generale Gandin e quello del capitano
Pampaloni neppure vi sono ricordati di sfuggita?
Ecco cosa è stata la "morte della Patria", signor presidente.
Il fatto che - ancora dieci anni fa - nel libro, pur per molti versi ottimo,
di uno storico di valore, i morti dopo l'8 settembre del Regio Esercito,
morti spesso in nome del Re, godevano di un'attenzione e considerazione
minori (molto, molto minori: fino al silenzio) di quelli dei partiti antifascisti,
dei morti partigiani.
Dunque, quando nell'intervista a "Repubblica" ella chiede ai
teorici della "morte della Patria" in qual modo essi possano
ignorare eventi come Cefalonia, lei, signor presidente, si rivolge alle
persone sbagliate. Ad altri va rivolta quella domanda, o meglio andava
rivolta: dal momento che oggi anche i dimentichi di ieri, anche loro,
hanno scoperto Cefalonia e la resistenza militare, affrettandosi a dargli
il rilievo che l'una e l'altra meritano. Oggi, però. Controlli,
signor presidente: vada a vedere quante volte e come è ricordata
la strage di Cefalonia nei libri sulla Resistenza che uscivano fino a
qualche anno fa.
Proprio ricordando la strage di Cefalonia e quella di Porzus; via Rasella
e il dramma del confine orientale; l'assenza del Mezzogiorno e la presenza
di una massiccia "zona grigia": proprio ricordando quanti fatti
del 1943-45 siano stati poi dimenticati o "addomesticati" per
anni, dalla vulgata corrente tutta ispirata dalla sinistra; proprio ricordando
a quali e quante pochezze, divisioni e contraddizioni laceranti la Resistenza
dovette in realtà assistere; proprio su tale base, qualcuno è
arrivato a concludere che essa - pur con tutto l'afflato patriottico di
chi vi prese parte - non riuscì, né poteva riuscire a produrre
il radicamento, nell'ltalia repubblicana, di un forte sentimento nazionale,
in sostituzione di quello andato distrutto con il fascismo e la sconfitta
bellica.
È accaduto così che, per cinquant'anni, l'ltalia sia stata
una democrazia senza nazione, senza "patria", appunto. Un Paese
in cui la patria era morta. Non lo crede anche lei, signor presidente?
Davvero lei pensa che, invece, nel nostro Paese ci sia stato un vero sentimento
patriottico, un vero e diffuso sentimento nazionale? Ma - mi chiedo e
rispettosamente le chiedo - da quale singolare spirito nazional - patriottico
era animato, un Paese in cui metà dei cittadini ha temuto per anni
di essere arrestata, deportata e magari fatta fuori dall'altra metà?
In cui nessuna scelta di politica estera è stata fatta con il consenso
di tutti? Che "patria" era, quella in cui influenze straniere
hanno potuto fare quasi tutto ciò che volevano? Dove l'esercito
e le forze di polizia sono stati considerati - per decenni, da molti,
da moltissimi - non simbolo di unità bensì di divisione
e di pericolo per la democrazia? Dove, dalla memoria della Resistenza,
erano virtualmente espulsi i morti politicamente sgraditi o indifferenti
al Cln, ma caduti anch'essi in nome dell'ltalia? E del resto, signor presidente,
se per mezzo secolo avessimo davvero avuto una patria, se per tutto questo
tempo ci fossimo tutti davvero riconosciuti in un inno e in una bandiera,
animati da un vero spirito di solidarietà nazionale, se tutto ciò
- come bisognerebbe desumere dalle sue parole - fosse stato vero, a che
pro allora il suo lodevole sforzo, dal momento in cui è entrato
in carica, per riaccreditare bandiera e inno, monumenti e sentimenti della
patria? A che pro questo continuo parlare che lei fa di nazione e d'Italia?
E che senso avrebbero mai la novità e il merito che, per tutto
ciò, l'opinione pubblica volentieri le riconosce, se da sempre
avessimo dimestichezza con gesti come quelli che lei compie, con parole
come quelle che lei pronuncia?
Come italiano, penso che sia una fortuna che lei oggi possa compiere quei
gesti e pronunciare quelle parole. È il segno che, forse, è
finalmente finito il lungo dopoguerra ed è iniziata un'altra e
nuova stagione; che, caduto il comunismo, tutti i muri sono caduti, anche
quelli che cosi a lungo ci hanno separati dalla nostra Patria.
Ma tra i doveri degli storici non c'è quello di essere patriottici.
Gli storici hanno semplicemente il dovere di studiare il passato, di salvarlo
alla memoria ricostruendolo secondo la loro capacità e la loro
coscienza, senza farsi influenzare dalle mode e dalle necessità
dell'oggi, senza prestare ascolto alle suggestioni dell'ora. E naturalmente
hanno il dovere di non farsi condizionare dalle polemiche aggressive di
chicchessia, fossero anche le sue, signor presidente. Con il massimo rispetto.
Io, la
Patria e i doveri di testimone
di Carlo Azeglio Ciampi, dal "Corriere della Sera" di lunedì
5 marzo 2001
Chiarissimo Professore,
non sono uno storico, non intendo sostituirmi agli storici. Ho vissuto,
come giovane ufficiale di complemento, le drammatiche vicende del 1943:
sono quindi, e so di essere, soltanto un testimone. Ho vissuto il collasso
dello Stato; ho vissuto lo smarrimento dell'assenza di "ordini"
in un momento, credo, il più tragico nella storia della nostra
Italia. Come tanti altri nelle mie condizioni, trovammo nelle nostre coscienze
l'orientamento: in quelle coscienze vibrava profondo il senso della Patria.
Questo intendo dire con la mia testimonianza di cittadino. La mia successiva
esperienza al servizio dello Stato per oltre cinquant'anni non mi consente
di condividere l'opinione che, per tutto quel periodo, pur così
travagliato, l'Italia sia stata "una democrazia senza Patria".
Come Presidente della Repubblica Italiana, sin dal primo giorno del mandato,
ho ritenuto di dover esprimere con immediatezza il mio animo. Ho avvertito
come spontanea risposta degli italiani un forte desiderio di riconoscersi
nell'affermazione di valori condivisi. Di qui il consenso e la partecipazione
a ogni iniziativa che attesti pubblicamente quei valori, senza retorica
ma con puntuali richiami a istituzioni, fatti, episodi.
Amo la lettura dei libri di storia. Ho grande rispetto per il lavoro,
documentario e interpretativo, degli storici. So quanto siano essenziali,
nell'uno e nell'altro aspetto, l'autonomia di ricerca e di giudizio, la
ripulsa di ogni condizionamento. Sono valori che fanno parte costitutiva
dell'etica civile, sulla cui solidità si fonda la stessa unità
nazionale.
Non ritengo però che sia di esclusiva competenza degli storici
di professione il riflettere sul passato.
È da questa riflessione che ogni cittadino, e ancor più
chi ha responsabilità politiche o istituzionali, deve trarre ispirazione
per il proprio impegno civile, per il proprio operare. Rendere poi note
queste riflessioni e valutazioni non è un atto censorio, ma un
atto dovuto. Vuole contribuire a tener vivo nei cittadini un forte senso
della Patria. Sono lieto che Lei esprima in proposito un giudizio positivo.
Con viva cordialità,
Carlo Azeglio Ciampi
Quell'ideale
che ci portò in montagna
di Giorgio Bocca, su "la Repubblica" di lunedì 5 marzo
2001
Il fascismo, la guerra, la
sconfitta, l'occupazione nazista, la volontà di esistere come nazione,
come paese civile con la Resistenza, non sono giudicabili da chi li visse
e soffrì di persona: come il presidente della Repubblica Carlo
Azeglio Ciampi, come coloro che, per venti mesi, rischiarono la vita perché
sentivano che la patria non era morta e che bisognava subito testimoniarne
la sua continuità?
No, pare che chi possa giudicarne sia solo uno storico revisionista come
Ernesto Galli della Loggia: per la ragione che lui è - come scrive
sul "Corriere della Sera", "professore di storia contemporanea
all'università, un teorico in ottima compagnia a cominciare da
Renzo De Felice e Indro Montanelli". Davvero? È' quasi mezzo
secolo che cerco di spiegare, al mio collega Montanelli, che la guerra
partigiana ci fu, e coinvolse milioni di italiani, e ai revisionisti che
fu una guerra di popolo e non solo una congiura comunista.
Queste sono cose che sa benissimo chi alla guerra partigiana prese parte
e che finge di ignorare chi ne discute solo ora, nella vigilia elettorale
in cui pare si debba sostenere che i comunisti erano degli antipatria
e i partigiani di altro colore degli utili idioti.
Noi che non apparteniamo alla corporazione dei cattedratici come il nobile
Ernesto Galli della Loggia abbiamo, teoricamente, una idea vaga di cosa
è la Patria, ma possiamo assicurargli che questa incerta nozione,
questo immaginario legame, questa retorica illusione esiste: e spinse
un popolo come il nostro, che odiava la guerra, a raccogliere l'otto settembre
del '43 le stellette militari che l'esercito in rotta aveva buttato nel
fango e a iniziare una guerra di popolo.
Scrivere saggi revisionisti sulla guerra partigiana, inventata dai comunisti,
gonfiata dalla falsa storia paracomunista - diciamo: la storia di una
minoranza di mezzi delinquenti che, come si legge nelle ultime sensazionali
rivelazioni, pubblicate con risalto anche da giornali che si definiscono
antifascisti e democratici - altro non era che una cospirazione agli ordini
di Mosca, e scriverlo in una vigilia elettorale in cui l'anticomunismo
più beota viene usato a piene mani, per giustificare il possibile
ritorno al governo dei fascisti, non ci sembra un'onesta revisione della
storia, ma il solito salto sul carro del possibile vincitore.
Questo revisionismo che impartisce lezioni di oggettività e di
autonomia, ignora il fondamento della storia, o almeno il tentativo di
fare una storia onesta: il contesto, il collocare i fatti nel loro tempo.
Piero Gobetti viene rievocato a uso elettorale come un leninista, un sostenitore
della violenza politica. Dimenticando chi viveva, come vittima, la dittatura
fascista e che la rivoluzione di ottobre, negli anni Venti, appariva al
mondo intero come una grande utopia. Come se venisse rimproverato a uno
della rivoluzione francese di non aver capito l'esito imperialista di
Napoleone. E, fatte le debite proporzioni, l'accusa a Bobbio e agli azionisti
di essere stati, nel primo dopoguerra, filocomunisti come se non fosse
in atto la restaurazione del vecchio Stato.
Lasciamola stare la storia perfetta, riserva dei cattedratici alla Galli
della Loggia. Parliamo della storia strumentale, propagandistica. Ce ne
fu una che piaceva al Partito comunista? Si, ci fu. A questa storia conveniva
esaltare il contributo dei comunisti alla Resistenza e mettere in ombra
episodi come quello di Cefalonia, in qualche modo legati all'esercito
" badogliano"? Si, ci fu. Ma dedurre da episodi che appartengono
alla lotta politica, alle avverse propagande, la prova che, per questo,
la Patria era morta, è perdere il senso della misura e dimenticare
che l'idea della Patria è diversa e sovrastante a quella della
lotta politica. Trattasi di un'idea troppo semplice per i cattedratici
revisionisti. Trattasi dell'idea di cui parla una canzone popolare: "E
una mattina mi sono alzato e ho trovato l'invasor". Tutto qui. L'idea
che nessuno può venire in casa nostra a farla da padrone, che -
qualsiasi siano le nostre idee di parte - può far violenza alla
nostra storia, alla nostra libertà. Comunque sono rassegnato, non
riuscirò mai a convincere il professor Galli della Loggia che -
in quell'otto settembre del '43 in cui salivamo in montagna - l'idea di
Patria non solo era viva ma l'unica esistente, nella nostra testa di ragazzi
usciti dalla dittatura: l'idea che la Patria era viva come non mai, tanto
che ci convinceva a iniziare una guerra impari, una guerra senza prigionieri.
L'ossessione
della Patria negata
di Eugenio Scalfari, da "la Repubblica" di domenica 11 marzo
2001
Che cosa è accaduto
in quel cinquantennio che arriva fino ai giorni nostri? Molto semplice
e molto chiaro per della Loggia: c'è stata in Italia un'egemonia
culturale comunista, anzi della sinistra perché ai comunisti vanno
affiancati i membri del partito socialista, del Partito d'azione e quant'altri
pur non comunisti o addirittura anticomunisti si riconobbero nella Resistenza
e in essa videro il momento ri-fondativo della patria dopo il fascismo
e la sconfitta. Quell'egemonia culturale impedì che il radicamento
popolare dell'idea di patria avesse luogo. La prova di quest'assunto sta
per della Loggia nel fatto che la pubblicistica repubblicana abbia ignorato,
anzi sottaciuto fatti come la strage nazista dei soldati della divisione
Aqui a Cefalonia perché "quei morti erano sgraditi o indifferenti
ai propalatori dell'egemonia resistenziale." Ma l'omissione di Cefalonia
è soltanto un sintomo. C'è stato ben altro: "Mi chiedo
- scrive il Nostro- da quale sentimento nazional patriottico era animato
un paese in cui metà dei cittadini ha temuto per anni di essere
arrestata, deportata e magari fatta fuori da quell'altra? In cui nessuna
scelta di politica estera è stata fatta col consenso di tutti?"
La lettera termina bacchettando "rispettosamente" il Capo dello
Stato per essersi permesso di metter bocca in un problema eminentemente
storiografico e insomma d'aver criticato e "intimidito" uno
storico insigne come il firmatario di quella pubblica missiva.
Mi sono fatto alcune domande sul cinquantennio repubblicano configurato
così sinistramente dal della Loggia. Non avendo io cariche pubbliche
penso che l'autore della lettera mi permetterà di porle senza per
questo sentirsi censurato nella sua attività storiografica.
La prima domanda è proprio su quella presunta attività.
C'è modo, storiograficamente intendo, di accertare scientificamente
e quantificare un sentimento? Nella fattispecie il sentimento nazional-patriottico
degli italiani?
Ebbene questo modo non esiste perché i sentimenti sono fatti individuali
che ciascuno esprime come può e vuole e mal si prestano ad essere
scientificamente registrati sia per negarne, sia per affermarne l'esistenza.
La storia è sempre interpretazione dei fatti e come tale contestabile;
figurarsi poi quando non si tratta di fatti ma di sentimenti.
Della Loggia pensa che quel sentimento non ci sia stato, altri può
pensare l'opposto. La storiografia non c'entra nulla e nulla, salvo il
suo personale modo di sentire, può portare lo storico a conferma
di ciò che egli, con molta presunzione, attribuisce ad una collettività
di cinquanta milioni di persone.
Seconda domanda. Metà degli italiani temeva di essere fatta fuori
dall'altra durante tutto il cinquantennio di cui si discute. Ma ne è
sicuro il mittente della lettera? Quale metà aveva questo timore?
O erano tutte e due le metà che temevano per la propria sorte fisica
e per la propria libertà?
Secondo le fantasie oniriche direi di chi pensa in questo modo 50 milioni
di persone per mezzo secolo hanno vissuto in un paese da incubo, attanagliati
dalla paura di essere arrestati, deportati, scannati. Il vero lager da
fare invidia a quelli nazisti o sovietici sarebbe dunque stato l'Italia:
un paese terrorizzato, nevrotizzato, con porte e finestre sbarrate contro
gli sgherri addestrati a uccidere gli avversari. Questo è il paese
in cui abbiamo vissuto dal 1945 ad oggi? A chi venisse a raccontarci fandonie
di questo tipo si risponderebbe che la sua è una fantasia malata.
Tale mi sembra l'immagine che della Loggia fornisce di un paese - ghetto
di terrorizzati.
C'è di vero che subito dopo il 25 aprile e per alcuni mesi, specie
in certe zone dell'Emilia Romagna, ci furono molte vendette politiche
e talune perfino private come seguiti della guerra partigiana. Furono
seguiti terribili, per fortuna di breve durata. Successivamente venne
il periodo dello stragismo e poi ancora quello delle Br, ma si trattò
di fenomeni di natura diversa anche se drammatica. Il terrorismo, quale
che ne sia il colore, è infatti cosa diversa dalla descrizione
d'un paese in uno stato perenne di guerra civile; ce lo prova l'Inghilterra
da decenni alle prese con l'Ira e la Spagna da decenni alle prese con
l'ETA. Aggiungo che sia lo stragismo che le Br contribuirono semmai a
cementare la comunità nazionale e le forze politiche in una difesa
comune delle istituzioni democratiche che hanno retto a una prova durissima
e l'hanno superata.
Potrei infine ricordare l'atteggiamento di responsabilità del Pci
nel momento dell'attentato a Togliatti e la simmetrica posizione della
dirigenza democristiana che seppe contrastare ogni suggestione interna
ed estera a mettere fuori legge i suoi avversari politici, suggestione
più volte riaffiorata nel corso degli anni e più volte battuta.
Fin qui le mie domande e, per quel che valgono, le mie risposte anche
se non vanto i titoli accademici dell'egregio autore della lettera al
Presidente.
Ma voglio aggiungere ancora una considerazione. L'amor di Patria non riguarda
o non riguarda soltanto il territorio , o l'etnia, ammesso che esista
un'etnia italiana. L'amor di Patria deriva da un'idea di paese. Gli ufficiali
tedeschi che attentarono alla vita di Hitler avevano un'altra idea di
paese; gli antifascisti italiani che condussero azioni clandestine durante
il ventennio avevano un'altra idea di paese. Tutti coloro - e furono moltissimi
- che tra il '40 e il '43 auspicarono la vittoria degli anglo-americani
avevano un'altra idea di paese e un'altra idea di paese avevano le popolazioni
italiane di tutte le regioni quando solidarizzarono concretamente con
gli ufficiali e i soldati sbandati, i prigionieri alleati evasi dai carceri
fascisti, i partigiani combattenti sui monti.
La nostra repubblica, per fortuna e malgrado le tante insufficienze e
traversie, è stata fin dall'inizio una realtà democratica
dove le libertà fondamentali sono state garantite a tutti. Certo,
un paese segnato dalla guerra e a sovranità limitata; il che non
gli ha impedito di crescere fino ad assumere un ruolo ed un peso economico
e politico.
Questo ruolo e questo "status" risultano purtroppo indifferenti
oggi ad una larga parte di cittadini "impolitici", giovani per
lo più. Ma questa situazione, del resto diffusa in gran parte dell'Occidente
e del pianeta, non ha a che fare con i risultati storiografici realizzati
dal professor della Loggia. L'egemonia culturale della sinistra non c'entra.
Le radici di quell'indifferenza sono ben altre e varrebbe la pena di applicarsi
al loro studio, egregio professore. Ma ognuno, si sa, è vittima
delle proprie ossessioni dalle quali è molto difficile uscire.
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