Pietro Zama
(1886-1984)
Per fare penitenza, rimango ancora un poco nel tema della mia impulsività. Ed ancora una volta mi rimprovero… ma inutilmente.
Ero stato pregato, come ho già detto, di tenere lezioni di Filosofia, Psicologia e Pedagogia nella locale Scuola Normale. dove si doveva concludere liquidando le tre classi.
Preside della Scuola Normale, come del liceo, era il prof. Ezio Chiorboli, venuto da Bologna: persona distinta e scrupolosa nell'adempimento dei suoi doveri e quindi esigente con gli insegnanti, e con tutti. Anche nelle conversazioni usuali faceva conoscere - e non di proposito - che era un purista del dolce stia novo: era il suo parlare. Fin dalle prime settimane egli aveva mostrato interesse per conoscere la cultura ed il metodo dei vari insegnanti, e quindi aveva assistito per qualche momento alle loro lezioni. Debbo riconoscere che io ero fra coloro che non avevano ricevute osservazioni o consigli.
Può darsi che tollerasse quella mia maniera del "reduce" che aveva amato veramente e paternamente i suoi soldati, ma che all'occorrenza, li svegliava con uno «scossone» o con un urlo "allegro" quando li vedeva imbalsamati o distratti o stanchi, per la soverchia "filosofica" fatica o por la paura.
Ma improvvisamente e per un banale motivo una nuvola oscurò i sereni rapporti col caro Preside: una nuvola che si era formata - a mia insaputa - nella Scuola Normale dove facevo sempre la prima ora di lezione par essere libero in Biblioteca nelle ore seguanti della giornata.
In quella mattina trovai nella classe una sola scolara: la figliuola del prof. Dal Pane, stimatissimo insegnante nella 5ª classe del Ginnasio, e sorella di Luigi Dal Pane, mio scolare nel Liceo. Quella figliola mi disse che molti compagni in tutte le scuole avrebbero partecipato ad una manifestazione pro-Fiume, ma lei preferiva la scuola. Attesi: in altre classi erano più o meno nelle condizioni della mia, ma io non me ne interessai.
Attesi oziosamente per un tempo che a me pareva sufficiente, e poi licenziai la Dal Pane, ed anche me stesso. Di corsa, in Biblioteca. e tranquillo.
Un paio di ore dopo arrivava il bidello del Liceo per consegnarmi una busta aperta nella quale un biglietto scritto e firmato dal Preside diceva ch'io dovevo presentarmi subito per rendere conto del mio operato.
Qui, con una breve parentesi, informo che scolaresche e famiglie alimentavano nella città. a mio riguardo, una nomea che a me sembrava esagerata. Forse contribuiva la mia posizione di combattente, forse discorsi che quando a quando avevo tenuto in pubblico, discorsi su temi storico-letterari.
Tornando ora al biglietto del Preside, mi sembrò di leggere nella faccia del bidello (ficcanaso) che egli l'aveva letto e contemplato; lui era li fermo, forse per vedere come finiva la faccenda, per conoscere anche la risposta. Avevo la busta e la carta era a portata di mano; e la risposta fu in questi termini:
«Il suo ordine mi dice che Lei ha delle velleità da colonnello, ma io non sono un coscritto. La cattedra che ho al Liceo, e quella della Scuola Normale sono a sua disposizione.»
E per dare una lezione anche al bidello, chiusi diligentemente la busta. Ritornando al Liceo, il Bidello aveva volato, giacché squillò da me il telefono: il prof. Chiorboli disperatamente mi supplicava per avere subito un colloquio, con me, per dissipare il malinteso, per capirci come sempre ecc. ecc.
Da parte mia, non appena consegnata la lettera al Bidello avevo riconquistato la mia serenità; e quindi risposi: - Vengo.
Non per collera, ma per calcolo, e quasi celiando entrando nell'ufficio, presi una sedia la misi di fronte alla scrivania, e dissi:- Mi metto a sedere senza preamboli: siamo due capo-ufficio di pari grado.
Il caro Preside se io avessi insistito nelle dimissioni si sarebbe trovato in grande imbarazzo di fronte al Provveditore agli Studi, al Sindaco di Faenza, alle difficoltà di trovare l'insegnante, ed alle inevitabili mormorazioni delle famiglie e - credo - al rincrescimento dei miei scolari. Quelli della classe superiore del liceo avevano l'abitudine di adunarsi, di aspettarmi qualche volta nel pomeriggio, presso il Liceo, per fare la solita gita (fino alle Bocche dei Canali, o in piazza d'Armi ed oltre) per conversare con me, per interrogarmi sulla guerra sofferta, e magari per qualche mia scherzosa trovata. Questa era la mia scuola. Nel Preside Chiorboli trovai in quel giorno l'amico buono, molta più buono di me. In primo luogo fu soppresso il Lei, e decidemmo sul tu perché bidelli e non bidelli comprendessero quanto fossero vivi i nostri rapporti. Va da sé che i due biglietti finirono nella stufa che era accesa: una fiammella, un po' di fumo, e basta. Dimenticanza; amicizia: ecco il finale del piccolo dramma.
(……)
Alla mia Scuola non avevo il problema della disciplina: l'avevo assicurata me ne ricordo ora il primo giorno, e per la prima volta con una scolaresca: terza classe liceale. Forse sarebbe più opportuno non parlarne; ma si tratta di una esperienza vissuta, e di confessare un mio difetto.
Salivo lo scalone del Liceo per raggiungere con gli alunni l'aula scolastica nel piano superiore ed avevo quei ragazzi tutti intorno vicino a me e non in fila, e mentre con loro entravo nell'aula, vidi coi miei occhi (da zgalon) che un ragazzo dietro le spalle, muoveva il braccio e la mano come se io fossi in quella parte un organetto ambulante. Eravamo già entrati, ed entravano gli ultimi, ed io mi girai, sferrai un pugno nel petto del giovanotto, un pugno che lo fece traballare e se non lo reggevano i compagni sarebbe caduto a terra. . - . . Per nulla agitato, presi posto nella cattedra. I ragazzi presero il loro posto silenziosamente e in fretta; ed io - dopo un'occhiata al registro che era davanti a me - incominciai la lezione con un affettuoso saluto e con gli auguri vedendo - cosi dissi - negli alunni i miei soldatini delle ultime leve: quelli del '98, '99. Sì, io avevo agito (o reagito) in una forma vietata, potevo subire un rimprovero o peggio. Ma di questo non mi preoccupavo. E poiché desideravo che non si impressionassero in quella prima ora liceale li tenni contenti anche per le domande che rivolgevo a loro, onde poterli conoscere come ragazzi di scuola, e come ragazzi di famiglia. Niente trapelò nessuno mi interrogò tanto meno il preside, dunque i ragazzi mi avevano capito. E mi aveva capito anche quel ragazzo che avevo interrogato in quella mattina scherzosamente e con simpatia.
Ricordo ora anche queste inezie, perché desidero di vedermi quale ero allora, anche nei miei difetti.