Una casa - Una scuola e viceversa
Classe 3B ginnasio 1938-39
Era giugno del 1936 quando mi presentai a sostenere l'esame di ammissione dalla classe Quinta elementare alla Prima ginnasiale.
Si doveva realizzare un disegno a piacere ed io disegnai un bel limone: per un mese non avevo fatto altro che disegnare limoni. Naturalmente ci saranno state anche prove di composizione e di grammatica italiana, ma non le ricordo. L'esito fu felice.
Il Ginnasio era ed è ancora situato in un grande edificio di Via Santa Maria dell'Angelo e vi si accedeva come oggi, dal portone che porta il numero 1. Ho trascorso in quella scuola otto anni di cui 5 di ginnasio e 3 di liceo, ed era anche la mia casa.
Come? Mio babbo, mutilato della Prima Guerra Mondiale, aveva ottenuto il posto di custode o più semplicemente di bidello nel Ginnasio - Liceo Torricelli di Faenza, con appartamento disponibile. Entravo dal portone col numero civico 9, salivo un ampio scalone con in cima un ingresso dalla Pinacoteca, percorrevo poi una scaletta ripida ed ero in casa. Dal mio appartamento con un'altra scaletta interna di legno e un corridoio stretto e buio, mi trovavo sul tratto di corridoio del primo piano a fianco della biblioteca: aule a destra, gabinetti a sinistra. Pur abitando cosi vicino, ero quasi sempre l'ultima ad entrare in classe; ma l'abitazione cosi comoda mi amareggiava in un certo qual modo perché mi impediva un contatto maggiore con i compagni.
L'ambiente grandioso mi dava soggezione, quasi paura, perché per anni è rimasto senza illuminazione e soprattutto perché si diceva ci fossero i fantasmi: sono convinta di aver visto una volta di sera un gatto nero correre rasente i muri. Già signorina restavo malvolentieri in casa da sola la sera, attenta ad ogni piccolo rumore. Se il babbo mi mandava in cantina di sera, usavo una candela che proteggevo con la mano sinistra perché non si spegnesse; intanto mi guardavo intorno. La cantina poi era situata giù nello scantinato che durante la guerra 1940-1945 divenne rifugio antiareo.
E' enorme, fatto di archi maestosi (di mattoni a vista) che si inseguono e si intrecciano creando ombre, penombre e nascondigli. Ricordo l'auditorium, bella sala affrescata dove ho assistito a tanti concerti, l'aula di fisica per gli esperimenti, la pinacoteca, il grande salone a tre rampe che dal pianterreno porta al primo piano davanti all'ingresso principale della Pinacoteca e infine il museo di scienze naturali, dove entravo malvolentieri perché gli animali imbalsamati mi spaventavano.
La costruzione è un grande edificio di mattoni a vista, di fattura classica. Il Ginnasio è nato prima del Liceo quasi quattro secoli fa, affidato dal Comune di Faenza alla Compagnia di Gesù che si occupava dell'educazione dei giovani. Dopo periodi burrascosi, per esempio quello napoleonico, a Faenza fu istituito il Liceo, il primo in Romagna, sotto la guida dei Gesuiti, finché nel 1860 il Ministro della Pubblica Istruzione del Regno di Sardegna istituì il Regio Liceo Statale a cui nei 1887 fu annessa anche il Ginnasio.
Ai miei tempi (1936 - 1944) il Ginnasio era sistemato all'ultimo piano. Il primo anno la mia classe contava quaranta alunni; il Prof Balbi non riusciva a tenerli a bada: era un persona senza polso. Lo ricordo ancora bene perché d'estate e d'inverno era sempre infagottato in una sciarpa. Nei due anni seguenti prese il suo posto la Professoressa Gina Gallegati, che abitava vicino alla scuola e conosceva la mia famiglia. Mi mandò all'esame di ammissione alla IV Ginnasio con cinque in latino, ma all'esame ottenni la media del sette. Ero stata esaminata dal Prof. Assirelli in italiano e dal Prof. Sella in latino. Quest'ultimo consigliò mio padre di farmi continuare gli studi, la qual cosa non mi entusiasmò al pensiero dei tanti anni da trascorrere sui libri. Nei due anni seguenti, seguenti i professori cambiarono.
Ricordo in particolare il professore di latino e greco Arles Santoro. Era appena laureato: se non avesse portato le cravatte, si sarebbe potuto scambiare per un alunno. Era molto bravo e piuttosto severo. Mi fece lo scherzetto di interrogarmi per prima sui verbi irregolari greci, ma lo lasciai di stucco perché non sbagliai neppure una risposta, tanto che mi additò ai compagni come esempio da seguire. Mio padre era regolarmente informato dei miei successi e insuccessi. Quando mi ero iscritta al Ginnasio, il Governo di Mussolini era già consolidato. Sulle pareti delle aule erano appesi vari manifesti dominati dal ritratto di Mussolini. Ogni manifesto conteneva una delle seguenti diciture: "vivere pericolosamente", "Resistere e combattere", "Vincere e vinceremo", "Abolizione del lei".
Mussolini nel 1939, seguendo l'esempio di Hitler, varò le leggi contro gli Ebrei che furono esclusi da ogni carica. Col passare del tempo fu data loro una vera caccia spietata: caricati con tutta la famiglia su camion o su treni merci, venivano deportati nei campi di concentramento o addirittura di sterminio in Germania; furono in pochi a tornare.
Due mie compagne di classe erano ebree: Dora e Margherita Matatia. Sparirono e si seppe poi che fortunatamente si erano rifugiate in America. Dopo la guerra ho rivisto solo Margherita ma ora sono morte entrambe. Ero molto affezionata a loro e ricordo ancora le favolose merende che la signora Matatia preparava per un bel gruppetto di ragazzine che si riunivano per studiare (?) nella bella casa di Via XX settembre.
Noi studenti organizzavamo le nostre manifestazioni per il centro, sorvegliati dagli insegnanti, per riavere Nizza e la Corsica.
Arrivarono poi dal Ministero della Pubblica Istruzione alcune regole: gli studenti dovevano seguire un corso di Cultura Fascista, poi imparare un lavoro manuale; noi femmine dovevamo seguire un corso di puericultura e uno di lavori manuali come maglia e cucito; i maschi dovevano presentami in divisa il sabato pomeriggio per un corso "premilitare". Dato poi che il mio babbo rilegava i libri nel tempo libero, il Preside gli dette l'incarico di insegnare tale attività ai maschi procurando tavoli, taglierini e telai. La fotografia che allego ritrae quei compagni durante le lezioni che si tenevano nell'angolo dov'era il bugigattolo di mio padre. E' presente il Prof. Santoro ed anche il "neo Prof." Carloni.
L'esame che doveva segnare il passaggio dalla Quinta Ginnasio alla Prima Liceo fu abolito.
Proprio al Liceo ci fu un avvicendarsi frequente di studenti e professori che sfollavano da zone di guerra già toccate dalle orribili vicende. Non posso ricordarli tutti ma alcuni sì: per Latino e Greco il Prof. Giuseppe Bertoni, per Italiano il Professor Ghiselli, per Scienze la Professoressa Vicchi, per Storia e Filosofia il Prof. Alberghi, per Storia dell'Arte la Prof. Vassura.
La Professoressa Sangiorgi, non ho mai capito il motivo, durante l'ultimo anno mi interrogò per ben 4 lezioni consecutive; voleva forse saggiare la mia preparazione? Non lo so, ma alla fine mi trovai in pagella un bell'otto. Il Prof. Alberghi mi stava antipatico, forse perché mi era antipatica la sue materia in cui non capivo nulla. Dolcissima la Professoressa Vicchi che non ho più rivisto dopo la guerra. Indimenticabile il Prof. Bertoni per il tuo sapere, per la comprensione verso i giovani; alla fine dell'anno 1942 - 1943 ci assegnò delle lezioni da fare durante le vacanze. Noi studenti ne parlammo, tanto ci disperammo per il motivo della fame, che il Prof. ci dispensò dai compiti estivi; la fame e la miseria c'erano veramente.
Cominciò l'ultimo anno del Liceo che poi si interruppe ai primi di maggio 1944 dopo il primo bombardamento su Faenza. E l'esame di maturità fu annullato. Fu in occasione di questo bombardamento che mi convinsi a scendere nel rifugio.
L'esperienza fatta lì fu terribile: persone ammassate, chi piangeva, chi pregava, chi bestemmiava, tutte ripiegate a terra su se stesse come per offrire minor bersaglio, tutte imbiancate da una leggera polvere che ad ogni boato scendeva dal soffitto. Fu la prima e unica volta, perché il giorno dopo con la famiglia sfollai a Modigliana, dove rimasi fino alla fine della guerra. Quando tornai al mio Liceo, lo trovai con qualche ammaccatura ma tutto sommato in discrete condizioni. Sono rimasta nell'appartamento al numero 9 fino al mio matrimonio nel 1948. Ogni volta che da Firenze scendo a Faenza non manco di passare in Via Santa Maria dell'Angelo e di sostare davanti al Grande Palazzo che ha visto la parte più importante della mia vita.
Noi, compagni di classe, ci disperdemmo dopo la guerra, seguendo ognuno la propria strada.
Oggi non ho a portata di mano documenti dell'archivio da sfruttare per parlare ancora della vita e delle varie vicissitudini del "Liceo Ginnasio Torricelli" nell'arco di tanti anni. Però ho la mia vita a farmi da battistrada: considerato che ho vissuto in Via Santa Maria dell'Angelo 9, fino al 1948; credo di avere delle cose da raccontare, se a qualcuno interessano.
Cerco di iniziare dai ricordi più lontani.
Le stufe di terracotta funzionanti a legna che il babbo doveva accendere ogni mattina furono sostituite dal riscaldamento a termosifoni che nel periodo bellico era tenuto spento.
I calamai a poco a poco sparirono con l'avanzare della penna stilografica.
Durante la guerra una parte del bellissimo giardino fu sacrificata per ottenere un orto; dopo la guerra vi si installò una cucina militare di cui facevano parte dei soldati palestinesi che mi abituarono a bere il the col latte.
Conservo ancora le pagelle: le prime due del 1936/37 e del 1937/38 sono firmate dal Preside Topi; quella del 1938/39 è firmata dal Preside Topi e da un altro la cui firma è illeggibile; le altre cinque, fino al 1944, sono firmate dal Preside Vittorio Ragazzini.
Ricordo in particolare degli eventi, che sono anche curiosi nel modo in cui sono accaduti: un giorno durante l'intervallo noi ragazze uscimmo dalla porta posteriore e di corsa, guidate dalla cara Giovanna, andammo al negozio della sua mamma situato all'angolo tra Corso Mazzini e Viale Baccarini. Ci sembrò una grande impresa.
Curiosità
Trasferitami a Firenze, già moglie e mamma, ebbi la necessità di una visita ginecologica. Il Dottore si fermò pensieroso a leggere e rileggere la mia scheda, poi esclamò: "Ma io ho frequentato da sfollato il Liceo di Faenza!".
Così scoprimmo di esserci trovati nella stessa classe; io non lo ricordavo, lui non ricordava me, ma ricordava tutti i maschietti.
Si chiamava Nati.
Nel 2004 fui ricoverata in ospedale per effettuare un'angioplastica.
Il cardiologo si presentò "Mi chiamo Santoro e, strana coincidenza, sono nato anch'io a Faenza". Meraviglia da parte mia e sorpresa da parte sua quando gli parlai di suo padre, il Professore Arles Santoro, a cui mandai tanti saluti.
Qualche giorno dopo ricevetti una bella telefonata proprio dal Professore che espresse il desiderio di incontrami; purtroppo è mancato qualche mese fa.
I ricordi dei luoghi e delle persone che ci sono state vicino nella giovinezza non si dimenticano; io almeno non li voglio dimenticare, ne sento la nostalgia e il desiderio.
A me accade questo: più invecchio, più si fanno vivi i ricordi lontani: generano nostalgia, ma rendono bella quella giovinezza che, nel momento in cui l'ho vissuta, mi sembrava tanto brutta.