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PARTE
PRIMA
Cronologia
degli eventi italiani dal 25 luglio all'8 settembre 1943
Dopo tre anni di guerra combattuta
nel deserto libico, gli Alleati partirono dall'Africa settentrionale,
all'attacco della "fortezza" Europa, ancora occupata dalle truppe
nazi-fasciste. Prima tappa, lo sbarco in Sicilia, che avvenne tra il 9
e il 10 luglio 1943.
Nonostante i proclami del duce, una dura resistenza italiana non ci fu
e gli Alleati, dopo aver conquistato l'isola, iniziarono la risalita dell'Italia.
L'invasione della Sicilia fece da detonatore alla profonda crisi del regime
fascista, progressivamente indebolito dalla fallimentare conduzione della
guerra e scosso da insanabili contrasti interni, segnando il destino politico
di Mussolini.
Già a partire dal 20 luglio si manifesta chiaramente la volontà
del re di porre fine al governo Mussolini e alla guerra. Il sovrano incarica
il duca d'Acquarone di procedere alle necessarie consultazioni per la
destituzione del duce.
Si trovano d'accordo con il re, alcuni esponenti di primo piano del Gran
Consiglio del Fascismo, come Grandi, Ciano e Bottai e ed alcuni quadri
dell'esercito, come il generale d'armata Vittorio Ambrosio.
Riportiamo di seguito, in una breve cronologia, i principali avvenimenti
che portarono dalla caduta di Mussolini all'armistizio dell'8 settembre:
25 luglio: Grandi presenta
al Gran Consiglio un ordine del giorno col quale s'invita il duce a rassegnare
gran parte dei suoi poteri nelle mani del sovrano, che viene approvato
con 19 voti contro 7 e dichiara la "sfiducia" a Mussolini che,
sentendosi inattaccabile, non se ne dà per inteso. A questo punto
il re ne ordina l'arresto, assume il controllo delle Forze Armate e nomina
il maresciallo Pietro Badoglio a capo del governo militare del Paese con
pieni poteri.
All'annuncio della caduta del fascismo, la gente si riversa nelle piazze
e nelle strade di tutta Italia per festeggiare la fine della dittatura,
i giornali iniziano a scrivere liberamente le proprie opinioni e vengono
liberati i prigionieri politici. Ma, come dichiara il governo, "la
guerra continua"
26 luglio: Alla notizia della caduta del fascismo, l'ambasciatore
tedesco Mackensen, si precipita da Badoglio. Il maresciallo lo assicura
solennemente che l'Italia continuerà la guerra e che il mutamento
di governo rappresenta un affare interno che non prelude a mutamenti nei
rapporti fra le potenza dell'Asse. I tedeschi, comunque, decisi più
che mai a ristabilire l'ordine e per niente fiduciosi nelle dichiarazioni
di Badoglio e dei diplomatici italiani, decidono di inviare reparti di
paracadutisti a Roma e organizzano le operazioni necessarie ad assicurarsi
il controllo militare della penisola.
Nel frattempo si forma il governo. Degli esponenti del Gran Consiglio
che avevano votato la caduta di Mussolini, neanche uno fu nominato ministro.
Sono però chiamati a partecipare all'esecutivo, perlopiù
vecchi esponenti fascisti, poiché il re, in caso contrario, teme
di perdere credibilità, avendo lui appoggiato, per più venti
anni, il regime. Ma anche perché gli antifascisti sono in maggior
parte repubblicani.
Dalle manifestazioni di piazza appare chiara la volontà del popolo
italiano di farla finita con la guerra e raggiungere, nel più breve
tempo possibile, la pace.
28 luglio: Badoglio adotta severe misure di sicurezza: il suo edificio
viene fatto sorvegliare giorno e notte da soldati armati di mitra mentre
i granatieri controllano la zona circostante; viene attivato il coprifuoco
e l'obbligo di circolare con un documento di identità; viene vietata
la libertà di stampa e di riunione; i permessi di porto d'armi
sono dichiarati tutti scaduti; si ricorre alla legge marziale, cosa mai
avvenuta prima (la repressione si rivelerà violenta causando, a
seguito delle manifestazioni pubbliche , decine di morti e centinaia di
feriti in tutta Italia; 3500 le persone che, nei 45 giorni seguenti, subiranno
condanne da un minimo di sei mesi a un massimo di 18 anni nelle 20 principali
città italiane). Intanto, nel paese, i prodotti alimentari scarseggiano
e, spesso, neanche il razionamento dei viveri è più sufficiente.
Il re, su indicazione di Badoglio, nomina senatori alcuni anti-fascisti,
tra cui Bonomi ed Orlando, per premiarli della buona disposizione nei
confronti del nuovo governo, e chiede un periodo di tregua politica e
propagandistica per non peggiorare le cose. Fanno ritorno in Italia alcuni
esuli politici come Amendola e La Malfa, altri ci provano e falliscono,
come Saragat. La maggior parte degli attivisti anti-fascisti non crea,
comunque, opposizione al Governo e si limita a rispettare le leggi imposte
da Badoglio. Si segue la corrente.
Mussolini viene imprigionato a Gaeta e gli viene preparato un alloggio
nei pressi di Santa Maria.
Nel frattempo Hitler prepara i suoi piani:
- piano EICHE: liberazione di Mussolini.
- piano STUDENT: cattura a Roma di tutti i membri del Governo e dei principali
esponenti politici antifascisti; restaurazione del fascismo.
- piano SWARZE: occupazione delle basi militari italiane e distruzione
o cattura della flotta.
- piano ALARICH: occupazione del territorio italiano e disarmo generale
dell'esercito italiano
30 luglio: I diplomatici italiani Marras e Lanza si recano da Hitler
per chiarire la posizione di Badoglio: si ribadisce che la guerra continua
al fianco dei tedeschi. Contemporaneamente, però, truppe tedesche
valicano il passo del Brennero e penetrano nelle valli dell'Alto Adige
e la loro diffidenza nei confronti degli italiani aumenta.
4 agosto: Hanno luogo i primi contatti diretti del governo Badoglio
con gli Alleati: sono gli incontri tra l'ambasciatore Lanza d'Ajeta e
l'ambasciatore inglese sir Ronald Campbell, e tra il diplomatico italiano
Berio e l'alleato Watkinson.
8 agosto: I tedeschi riducono dei 2/3 le forniture di carbone all'Italia
e requisiscono quasi completamente quelle di petrolio, oltre al grano
già acquistato dalla Romania.
12 agosto: Più di 2000 tonnellate di bombe vengono sganciate
da aerei alleati su Milano
13 agosto: Gli Alleati, comunicano a Berio che non intendono trattare,
ma vogliono la resa incondizionata dell'Italia. Centinaia di tonnellate
di bombe vengono sganciate su Roma dall'aviazione alleata comandata dal
generale Doolittle.
14 agosto: Roma viene dichiarata Città Aperta. Nelle intenzioni
del governo ciò dovrebbe risparmiare ulteriori bombardamenti su
Roma. La dichiarazione italiana, essendo un atto unilaterale, lascia però
al comando alleato completa libertà d'azione. Si cerca di mantenere
truppe in città "clandestinamente", facendo girare i
soldati in abiti borghesi, ma il trucco è scoperto dagli Alleati
che continuano a bombardare.
15 agosto: Mentre il generale Roatta, si incontra con i colleghi
tedeschi Jodl e Rommel giurando solennemente la lealtà dell'Italia
e la volontà di mantenere l'alleanza con la Germania, l'ambasciatore
Castellano si reca a Madrid per le prime trattative con gli Alleati. E'
la tattica del "doppio binario" seguita da Badoglio: mantenere
l'alleanza con i tedeschi e segretamente avviare le trattative per l'armistizio
con gli anglo - americani.
Intanto, non si ferma l'afflusso di forze tedesche verso la penisola e
vengono costituiti 2 presidi militari nel sud del paese: il primo, al
comando del generale Kesserling, in Puglia, il secondo, con a capo Rommel,
nella zona Napoli-Salerno. Scarso è però l'accordo tra i
2 comandi per l'incompatibilità dei loro capi: mentre Rommel risulta
inflessibile e dà seguito alle direttive di Berlino sempre con
rigore e rigidità, Kesserling dimostra una certa "disponibilità"
nei confronti dell'esercito italiano e delle esigenze manifestate dai
suoi comandanti.
17 agosto: Le armate alleate, la 7^ armata statunitense di Patton
e l'8^ armata inglese di
Montgomery, ai comandi del generale inglese H. Alexander portano a termine
la conquista della Sicilia facendo ricorso anche agli utili rapporti con
la mafia siciliana, che alcuni noti esponenti italo-americani di Cosa
Nostra mettono a disposizione del comando alleato.
19 agosto: A Lisbona avviene l'incontro segreto tra Castellano,
Bedell Smith e Kenneth Strong. Durante l'incontro i 2 ambasciatori alleati
illustrano le clausole poste a condizione dell'armistizio. Castellano
rivela importanti segreti militari, come la dislocazione delle truppe
tedesche ed italiane.
24 agosto: Il re, per niente soddisfatto della politica di Badoglio,
avverte Grandi che presto sarebbe stato chiamato ad alti incarichi. Badoglio,
come contromossa, fa circolare la notizia che i tedeschi sono pronti ad
un colpo di mano per impadronirsi di Roma. Muti, scomodo avversario politico
di Badoglio, viene ucciso in circostanze misteriose.
Il maresciallo tenta la prova di forza, decidendo di dare la caccia ai
fascisti. Tra questi: Bottai, Starace, Luigi Freddi, Claretta Petacci,
Ciano. Quest'ultimo fugge in Germania sotto la protezione diretta di Hitler,
perché stretto parente di Mussolini, ma viene definito dai fascisti
"il traditore del 25 luglio".
Il generale Zanussi viene mandato a sostituire Castellano, di cui non
si hanno più notizie, ma è scambiato per una spia e solo
in seguito a un interrogatorio che si prolunga fino al 30 agosto e ad
una spiegazione di Badoglio, il suo caso verrà risolto.
27 agosto: Dopo vari ed inutili tentativi di mettersi in contatto
con il governo, Castellano e il suo traduttore Montanari arrivano a Roma,
sapendo che se avessero tardato oltre il 30 agosto, l'armistizio sarebbe
stato rifiutato dagli Alleati. Queste le condizioni poste dagli Alleati:
1.L'Italia deve accettare le condizioni e modalità di resa.
2. Gli sbarchi alleati, concordati con gli italiani, per la difesa di
Roma non prevedono 15 divisioni, come richiesto dal governo Badoglio,
ma solo 5, max 6, divisioni.
3. Lo sbarco principale avverrà a sud di Roma senza opposizione
italiana, e sarà accompagnato dal lancio alla periferia della capitale
della 82^ divisione aviotrasportata americana, e dall'arrivo per mare
di un centinaio di pezzi anticarro alla foce del Tevere.
4. sei ore dopo lo sbarco si darà annuncio dell'armistizio da entrambe
le parti.
29 agosto: Hitler ancora una volta diffidente del governo italiano,
manda il generale von Rintelen a manifestare gli espliciti dubbi del Fuehrer
sulla lealtà di Badoglio.
2 settembre: Castellano si reca in Sicilia per ultimare l'accordo
e ufficializzarlo firmando il
documento,ma con sorpresa degli Alleati, l'ambasciatore italiano è
sprovvisto della delega necessaria per porre la firma e dare validità
all'armistizio.
Nel frattempo l'8^ armata britannica è già sbarcata, senza
incontrare difficoltà, sulla punta dello stivale, impadronendosi
di Reggio Calabria e del suo aeroporto
3 settembre: Alle ore 17.15 Castellano firma l'armistizio dopo
avere ottenuto la delega dal governo con un telegramma del maresciallo
Badoglio. Nella notte tra il 3 e il 4 viene studiata, punto per punto,
l'operazione Giants II che dovrebbe permettere agli alleati di prendere
il controllo di Roma. Castellano non viene però messo al corrente
della data esatta dello sbarco e neanche del luogo: le sue previsioni
lo portano ad ipotizzare il 12 settembre e così riferisce a Badoglio.
Questo avrà tragiche conseguenze sulla sorte dell'operazione e
dell'intera nazione.
6 settembre: Inspiegabile partenza del generale Ambrosio da Roma;
il giorno seguente è previsto l'arrivo dell'ambasciatore Taylor
per accordi in merito all'operazione Giants II
7 settembre: Si fanno tutti i preparativi per la fuga del re. Le
truppe anglo-americane si preparano per lo sbarco.
Taylor e Gardiner si recano a Roma e con inevitabile sorpresa da parte
dei comandi italiani, informano che la data dello sbarco, prevista da
Badoglio per il 12 settembre, viene anticipata di 4 giorni, all' 8. A
questo punto è la confusione più completa, e ciò
determinerà la decisone degli alleati di annullare l'operazione.
Si richiede, comunque, a Badoglio l'annuncio dell'armistizio al popolo
italiano.
8 settembre: Il generale
Badoglio sotto la pressione diretta del generale Eisenhower, alle h. 19,45,
annuncia l'avvenuta firma dell'armistizio alla radio. Eccone il testo:
" Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare
l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento
di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha
chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle
forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente
ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare
da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno
a eventuali attacchi da qualsialsi altra provenienza."
Confusione
massima
L'annuncio dell'8 settembre
1943 segna il culmine di quello stato di confusione degli apparati dello
stato e dell'esercito che ormai si protraeva fin dal 25 luglio.
Il popolo italiano è diviso da sentimenti contrastanti: da un lato
è chiaro il desiderio di staccarsi definitivamente dall'opprimente
alleanza con la Germania e cercare l'aiuto concreto delle forze anglo
- americane, ma dall'altro si teme la ferocissima repressione del nuovo
nemico tedesco, già presente in forze sul territorio nazionale.
L'ambiguità del messaggio di Badoglio, poi, non aiuta certo a risolvere
tale dilemma. Ogni uomo italiano è solo davanti ad una scelta che,
nel bene o nel male, segnerà profondamente, fino spesso alla morte,
la vita di ciascuno.
Ad aumentare il caos, il 12 settembre i paracadutisti tedeschi di Skorzeny
liberano Mussolini dalla sua prigionia sul Gran Sasso.
Ma è nell'esercito che la confusione raggiunge i suoi massimi livelli
d'incertezza e precarietà. Nelle caserme mancano del tutto le istruzioni
dei comandi superiori e molte vengono letteralmente abbandonate dagli
ufficiali che lasciano, così, i loro soldati al proprio destino.
Per questa ragione è dalle interviste fatte ad alcuni miei concittadini,
che in quel tempo erano tra quei militari che più di altri italiani
subirono l'urgenza del dover decidere cosa fare senza sapere cosa succedeva
loro intorno, che inizio questa mia breve indagine sui motivi che portarono
a scelte diametralmente opposte, ma tutte ugualmente decisive per chi
le fece.
Nelle
caserme in Italia ...
Il primo è Domenico
Garotti. Solarolese, ha 21 anni nel 1940 quando l'Italia entra in
guerra a fianco della Germania. Figlio di un mezzadro, viene arruolato
al posto del fratello, che era stato dichiarato "rivedibile"
nel 1939. Nasce, dunque, da un malinteso il suo arruolamento. Fatto sta
che Domenico si ritrova su di una nave diretta in Libia , dove rimarrà
per 3 anni e 3 mesi, sempre in prima linea durante tutte le fasi decisive
della guerra d'Africa, dalle varie battaglie per Tobruk a quella decisiva
di El Alamein, fino alla ritirata finale verso Tunisi.
E' grazie alla decisione di Rommel di rimpatriare i soldati che avevano
combattuto per più di 3 anni nel deserto africano, che Garotti
può finalmente tornare a casa nell'aprile del 1943, appena pochi
giorni prima della definitiva capitolazione delle forze dell'Asse in Africa
settentrionale avvenuta il 7 di maggio.
La sua licenza è però breve perché viene subito rispedito
in servizio a Modena. E' lì che, nella mattina del 9 settembre,
dopo avere ascoltato nella notte l'annuncio dell'armistizio, Domenico
ed i suoi compagni si ritrovano in una caserma ormai vuota, dove gli ufficiali
sono tutti fuggiti. Dopo un primo momento di sbandamento collettivo, in
cui nessuno sa cosa sia più opportuno fare, i soldati decidono,
di comune accordo, d'abbandonare la caserma e rientrare alle loro case.
In gruppo si recano alla stazione ferroviaria dove scelgono di salire
su di un treno diretto a Cento - Ferrara, a causa delle difficoltà
di percorrenza della linea diretta per Bologna. Ma quando il treno si
ferma a Cento, trovano la stazione occupata da un reparto di SS, che,
dopo averli fatti scendere, li costringere a rientrare sotto scorta alla
loro caserma di Modena, dove rimangono, in stato di prigionia, per più
di 20 giorni.
Garotti intravede la possibilità
di una fuga, e mobilita il padre, che lo è venuto a trovare, affinché
gli procuri il denaro necessario per corrompere i guardiani. Ma l'annuncio
fatto dai tedeschi, che il giorno seguente sarebbero stati tutti liberati,
blocca il tentativo d'evasione sul nascere. L'euforia si diffonde tra
i soldati, ormai sicuri di poter presto riabbracciare i loro cari. Ma,
proprio quando l'idea di un felice ritorno a casa sembra farsi più
concreta, il giorno stesso in cui, stando alle informazioni ricevute dai
tedeschi, sarebbero stati tutti liberati, l'intera compagnia viene caricata
su di un treno e spedita in Germania.
Garotti rimane così,
per 27 mesi, ai lavori forzati presso la fabbrica della Bmw, a Baiesdoff,
vicino a Berlino, dove si costruiscono ed assemblano componenti per i
missili V2. Le condizioni di lavoro sono durissime: orari massacranti,
fino a 14 - 15 ore al giorno, continui bombardamenti aerei, ma soprattutto
la fame ed il terrore suscitato dalla violenza delle SS contro chi "sgarra"
dai ritmi imposti dalla produzione, riducono Domenico ad una larva. Viene
anche picchiato a più riprese, fino al giorno dell'aprile '45 in
cui le truppe dell'Armata Rossa, occupano Baiesdoff e lo liberano insieme
agli altri suoi compagni di prigionia. Ma ci vorranno ancora mesi prima
che possa raggiungere Solarolo e riabbracciare i suoi cari dopo circa
6 anni di quasi ininterrotta lontananza, passati, come molti altri militari
italiani, prima a combattere con e per i tedeschi e poi a lavorare come
loro "schiavo" nelle fabbriche perennemente bombardate della
Germania.
Romeo
Bettoli, mio nonno, partì soldato il 10 settembre 1942, arruolato
nel 7° Reggimento "Firenze" del Genio, 4° compagnia
fotoelettricisti. Dopo alcuni trasferimenti da Firenze a Chiavari e poi
a Pistoia, Bettoli viene
mandato in servizio nel meridione d'Italia e nell'aprile del 1943 si trova
a Nicastro, in Calabria, nell'entroterra di Lamezia Terme.
Dall'arrivo della notizia della caduta del Duce il 25 di luglio, le informazioni
sull'evoluzione della situazione politica e militare, ed in generale i
contatti con il resto d'Italia incominciano a farsi sempre più
rari e meno precisi. Sprovvisti di ogni mezzo di comunicazione i soldati
si affidano alle voci popolari, soprannominate ironicamente "radio
scarpa". Quello che in parte si sapeva, ed in parte si "percepiva",
era che gli anglo - americani avanzavano in Sicilia, mentre l'esercito
italiano, che doveva difenderla, era in gran parte formato da reduci della
guerra Libia, molti dei quali stanchi ormai di combattere, dopo aver percorso
in lungo e in largo il deserto per più di tre anni, tra sanguinose
offensive e disastrose ritirate, fino all'ultima che li aveva visti definitivamente
sconfitti e cacciati dal suolo africano. Certo, un qualche sbandamento
tra le truppe lo si "percepiva".
Bombardamenti alleati sulla ferrovia tirrenica tagliarono anche gli ultimi
collegamenti e Bettoli,
"percepito" che ormai le truppe erano allo sbando, partì
a piedi con altri compagni, cercando di ritornare a casa, al nord. Arrivati
a Cutro, sulla ferrovia ionica vicino a Crotone, chiesero asilo ad un
reparto che presidiava una delle poche basi militari italiane non ancora
sfollate. Proprio qui appresero la notizia dell'armistizio e seppure il
reparto fosse ancora in armi, il disagio e la confusione erano grandi.
Non si ricevevano più ordini dai comandi e gli ufficiali non sapevano
più come comportarsi. Fatto sta che gli inglesi, già molto
vicini, superarono Cutro di slancio per continuare la loro avanzata verso
nord. Molti, tra gli italiani, pensavano che in un paio di mesi gli anglo
- americani avrebbero avuto ragione dei tedeschi e che la guerra, almeno
in Italia, fosse vicina alla fine.
Fu così che Bettoli
decise di partire volontario per il fronte, arruolandosi di nuovo, per
combattere a fianco degli Alleati, in un esercito italiano in via di ricostituzione,
e risalire con esso la penisola fino a casa. Fu spedito a Termoli e da
qui cominciò lentamente la risalita dell'Italia, per giungere a
Faenza alla fine del '44, dopo essere passato per Bari, Ancona, Pesaro,
fino alla Romagna. Un viaggio che però, contrariamente alle aspettative,
si rivelò ben più lento dei due mesi sperati.
Appare chiara da questi racconti la confusione massima che si era creata
nei reparti e nelle caserme dell'esercito italiano: nessuno sapeva cosa
fare esattamente, dove andare; gli ordini erano stati imprecisi e confusi,
ammettendo poi che fossero ordini. In queste condizioni ognuno cercò
di arrangiarsi a modo proprio. Le scelte di quei soldati, oltre a quelle
di migliaia di altri italiani, sono state decisive per il futuro dell'intera
nazione e hanno certamente avuto un peso enorme sul futuro personale di
chi le fece. Mi pare perciò importante chiedersi se sono state
volute od obbligate, ed i fatti che andiamo descrivendo, paiono indicare
come le condizioni specifiche in cui questi uomini si trovarono, risultarono,
almeno inizialmente, decisive per la loro particolare scelta.
Ciò risulta ancora più evidente per i molti soldati italiani
che non si trovavano in Italia al momento dell'armistizio, ma in Grecia,
o nei Balcani, o addirittura in Russia. Lontano dalla Patria, spesso circondati
da unità tedesche ora diventate ostili, essi furono a volte, là
dove l'organizzazione militare tenne, autori di scelte eroiche, come a
Cefalonia, a volte, invece, abbandonati dai comandanti e nel generale
sbando dei loro reparti, una vera e propria scelta neppure poterono farla,
costretti dalla forza maggiore degli eventi a seguire ciascuno il proprio
incerto destino.
e all'estero
A questo proposito ho intervistato
Vincenzo Venturelli, un faentino che, a 19 anni, esattamente il 5 settembre
1942, partì soldato per Napoli, arruolato in un'unità diretta
in Grecia, il 35° autoreparto. Nel viaggio per l'Albania, con il mare
forza 9, perse 20 compagni durante la sola traversata. Fu così
che l'8 settembre 1943 Venturelli si trovava ad Atene, quando, rientrato
in caserma, via radio, lo raggiunse la notizia del proclama di Badoglio.
La prima reazione, ricorda, fu di esultanza generale, ma poi, presto,
molti si chiesero come ci si doveva comportare con i tedeschi e come questi
avrebbero reagito. All'esultanza, allora, si sostituì repentinamente
la preoccupazione circa il loro prossimo destino. Cercando di organizzarsi
ciascuno tornò nella propria camerata, per accorgersi però
che solo un capitano non era fuggito: tutti gli altri ufficiali erano
spariti. Di quella notte Venturelli ricorda perfettamente il viavai della
gente e la generale confusione. Ben presto, però, i carri armati
tedeschi circondarono la caserma e imposero agli italiani la consegna
delle armi, pur concedendo loro la libertà vigilata.
Il 13-14 settembre 1943, tutti i soldati italiani, compreso il nostro
Vincenzo, furono scortati alla stazione, con la garanzia, da parte del
comandante tedesco, che stavano per essere rimpatriati. L'ufficiale tedesco
scomparve ed il treno partì, ma la direzione che prese fu diversa
da quella sperata, e i soldati italiani, privi di scorte e di viveri,
sopravvissero durante il lungo viaggio scambiando, nelle rare soste, i
loro abiti con alimenti.
Giunsero poi a Vienna dove furono perquisiti dai tedeschi e rinchiusi
in carri-bestiame, dentro i quali viaggiarono per altri giorni fino ad
un campo di smistamento nei pressi di Lipsia, da dove furono infine spediti
ai lavori forzati in Cecoslovacchia, presso una fabbrica di benzina sintetica,
ottenuta dalla lavorazione del carbone.
In seguito al suo esplicito rifiuto di lavorare, Venturelli si trovò
inquadrato nella Compagnia di Disciplina, controllata direttamente dalle
SS, e dove la disciplina era, per l'appunto, "paurosamente"
rigida. Alle 4.00 iniziavano a lavorare e continuavano per 14 - 15 ore
ogni giorno. Venturelli trascorse nella Compagnia di Disciplina 15 giorni
terribili, mangiando soltanto 3 o 4 carote o patate, 1 volta al giorno
e afferma che, se il gruppo degli italiani non fosse stato trasferito
in un altro campo, a Pulgor (18 km da Lipsia), sarebbe certamente morto
di stenti. "Più di un mese non riusciva a resistere nessuno".
Nel nuovo campo Venturelli ed i suoi compagni rimasero fino quasi alla
fine della guerra. Dopo i primi colpi sparati dall'artiglieria americana,
furono infatti "rastrellati" fino a Lipsia, dove poi gli Alleati
(francesi, inglesi, americani) nell'aprile del '45, dopo la fuga dei poliziotti
tedeschi, li liberarono. Vincenzo Venturelli fu rimpatriato in Italia
il 27 giugno 1945.Da questa testimonianza risulta confermato come, in
molti casi, i nostri soldati, pur non mancando né di coraggio,
né di determinazione (vedi il netto rifiuto di Venturelli al lavoro),
furono travolti da eventi così sfavorevoli da impedire loro qualsiasi
possibilità di scelta, anche se non può sfuggire come, all'origine
delle loro disgrazie, resta la clamorosa defezione dei responsabili dei
comandi, gravissima all'estero, dove, ancor più che in Italia,
avrebbero almeno dovuto tener ferma, pur nella generale incertezza dei
compiti e delle prospettive, la loro diretta responsabilità nei
confronti dei propri uomini, che invece, come Venturelli testimonia, furono
spesso abbandonati a se stessi. Dove ciò non avvenne, vedi i reparti
dell'Egeo, quel coraggio che fu di tanti, ebbe la possibilità d'esprimersi
in scelte ardite fino al limite del sacrificio, che, come ancora di recente
ha sostenuto il presidente Ciampi, forgiarono, nella resistenza al nazismo,
un rinnovato sentimento patrio, che permise a molti italiani di ritrovare,
dopo averla persa, una nuova identità e dignità nazionale.
La Resistenza
Una resistenza, quella che
cita il Presidente, che fortunatamente per il paese non si fermò
sulle coste dell'Egeo, ma via via si estese, sempre più convinta,
sempre più dura, in tutta l'Italia non ancora liberata e soprattutto
in questa terra emiliana - romagnola dove, possiamo dirlo, fu guerra di
popolo, vuoi per la partecipazione diretta alla lotta armata, vuoi indirettamente
con il sostegno dato ai combattenti dalla stragrande maggioranza della
popolazione locale: "la più feroce e sincera di tutte le guerre"
come la definì il noto latinista e comunista Concetto Marchesi.
Non vogliamo aprire qui una discussione sul significato ed il valore che
la Resistenza ha avuto nella storia patria, per i quali rinviamo agli
allegati sulla "Morte della Patria". Vogliamo solo riportare
brevemente il caso di un allora giovanissimo che la preferì, cercando
di comprendere le condizioni che gli fecero maturare una simile scelta.
Battista
Casanova, anch'egli faentino, è nato il 25 agosto 1925. Figlio
di un socialista, frequenta le scuole medie e a quattordici anni, come
quasi la totalità dei suoi coetanei, entra nel mondo del lavoro:
era impiegato presso una ditta cotoniera, il cui magazzino sorgeva nella
Filanda Vecchia. (su Battista Casanova
si veda anche il lavoro sugli alleati visti dai faentini)
Ricorda il 25 luglio del'43 e la grande festa in piazza del Popolo, con
la gente esultante per la fine del regime, ma anche per la speranza che
la guerra stesse per finire e con essa tutte le sofferenze patite. Ricorda
i rapporti con le persone, in particolare quelli con il comunista Aldo
Celli, poi ucciso dai fascisti. Ma ricorda in particolar modo l'8 settembre,
quando la notizia dell'armistizio colse Faenza impreparata: non solo i
comuni cittadini, ma anche i reparti militari di stanza nelle caserme
ora non più esistenti, e soprattutto i fascisti, alcuni dei quali
addirittura si suicidarono. Un gruppo di miliziani si asserragliò
nella caserma della 71°legione manfreda (Loggia dei fantini), circondata
dalla folla inferocita. Dalle finestre partirono dei colpi e un amico
di Casanova, Clemente Ghirlandi,
rimase ucciso. Poi arrivarono i Panzer tedeschi, che occuparono tutte
le posizioni strategiche della città, ponendo immediatamente fine
alla ritrovata libertà.
Occorre tenere presente questi fatti per comprendere come all'instaurazione
della Repubblica Sociale e all'obbligo di arruolarsi nelle neo costituite
unità militari fasciste, pena la fucilazione, Casanova
e alcuni suoi compagni reagirono scegliendo di darsi alla "macchia",
fuggendo in montagna. Arrivarono fino al Monte Falterona. Il loro obiettivo
era quello di unirsi ai partigiani che operavano da quelle parti e dei
quali avevano sentito tanto parlare. Fu così che il diciottenne
Battista divenne un "bandito" della Corbari con la quale partecipò
attivamente a numerose incursioni ed ad alcuni importanti scontri come
quello di San Benedetto in Alpe e della Valle del Tramazzo. Fu anche arrestato
dai carabinieri, ma fuggì, da Iesolo, per ritornare sui monti.
In seguito la brigata Corbari, morto il suo leggendario capo, fu incorporata
nell'8° armata inglese e Casanova
partecipò con essa alla presa di Forlì. Ritornato a Faenza
profuse il suo sforzo a favore della cittadinanza
afflitta dalle distruzioni della guerra e
ha mantenuto fino ad oggi un costante impegno politico.
La Repubblica
Sociale
Come già abbiamo detto,
mentre al sud il governo Badoglio cercava di rifondare l'esercito e portare
a termine la guerra a fianco degli Alleati, al nord, il 23 settembre 1943,
fu costituita, la Repubblica Sociale Italiana (RSI) (chiamata così
solo il 25 novembre 1943), altrimenti nota come Repubblica di Salò,
dal nome della sede prescelta per il suo governo.
Hitler, dopo aver liberato Mussolini, ormai sessantenne, dalla sua prigione
sul Gran Sasso, gli impose la costituzione di uno stato italiano fascista
e filo - tedesco con lo scopo di "alleggerire "e in qualche
misura giustificare l'occupazione tedesca della penisola. I tedeschi,
comunque, ormai diffidenti verso gli italiani, compresi quelli ancora
fascisti, imposero un controllo più diretto, cercando di recuperare,
almeno in parte, l'efficienza di un certo numero di reparti militari italiani
e spesso, per ottenere i loro scopi, non esitarono ad utilizzare intimidazioni,
repressioni, deportazioni e rastrellamenti.
Va da sé che in queste condizioni il nuovo governo di Mussolini
(ma il discorso vale negli stessi, identici termini anche per quello monarchico
del sud), ebbe un minimo di poteri, ma ne fece subito uso nei confronti
dei cittadini: severo quando si trattò di metterli al passo, prodigo,
alla bisogna, di promesse e di misure che li lusingassero e dilaniato
dalle fazioni, fu impedito di fatto dall'intervenire nelle questioni concernenti
la guerra in corso e apparve presto, agli occhi dei più, nient'altro
che quello che era: un fantoccio nelle mani di Hitler.
Ciò nonostante, ed a prescindere da quelli che furono "obbligati"
ad aderirvi, la RSI rappresentò per una parte di giovani e giovanissimi
italiani un forte richiamo e la ragione di una scelta, spesso non meditata
a fondo, ma dura e radicale, fatta per lo più sull'onda dell'indignazione
di fronte all'armistizio, letto come un tradimento, non solo e non principalmente
nei confronti dell'alleato tedesco, ma di quegli stessi valori di Patria
ed onore, al rispetto dei quali erano stati educati fin dall'infanzia.
Tra questi giovani, c'era anche
A.Z. di Imola. Nato nel 1928, nel '43 ha appena 15 anni e frequenta ancora
la scuola. Vive con la famiglia nella Rocca sforzesca, dove il padre svolge
funzione direttiva presso le carceri della città.
Parlando della sua infanzia, l'intervistato racconta come in casa sua,
pur nell'indiscussa fedeltà al fascismo, la politica non fosse
un argomento particolarmente sentito e dibattuto, mentre ricorda la forte
propaganda politica fatta dal regime nelle scuole e tramite l'Opera Balilla,
all'interno della quale tutti i bambini della sua età venivano
inquadrati. Ricorda chiaramente l'esaltazione popolare per la conquista
dell'Etiopia e poi, come al momento dell'entrata in guerra dell'Italia,
molte persone la volessero quella guerra, rivendicando le presunte ingiustizie
subite dal paese ad opera degli avversari.
La notizia della caduta del Fascismo gli arriva per radio, e nonostante
lo sbarco in Sicilia fosse già avvenuto, la cosa lo sorprende cogliendolo
impreparato; "non ci si pensava a quelle cose". Non lo sorprese
invece il fatto che nessuno dei gruppi rionali fascisti di Imola reagì
all'evento, perché "il partito fascista era al servizio dello
Stato" ed era quindi logico che ne seguisse le direttive e poi
" si sapeva che la gente era stanca".
La sua reazione all'armistizio è invece diversa. A.Z. racconta
che il suo disaccordo con la scelta del governo Badoglio fu immediato
e che la sensazione di smarrimento iniziale, che pur lo colse all'apprendere
la notizia, fu presto superata: "non si doveva venir meno agli impegni
presi, si doveva continuare la lotta". Per lui era una questione
d'onore e si sarebbe sentito un traditore scegliendo diversamente. Fu
così che A.Z., con i tedeschi che attraversano veloci la via Emilia,
e spronato dalle manifestazioni che si organizzano nella città
a favore della nascente RSI, decide di unirsi ad un gruppo di altri 200
giovanissimi volontari imolesi che partono con la speranza di andare a
combattere al fronte, arruolandosi nella Guardia Nazionale Repubblicana:
"eravamo giovani, non pensavamo
non sapevamo niente di programmi
politici, non volevamo tradire la Patria".
E' interessante notare come nelle parole dell'intervistato ritornino continuamente
le medesime, chiare motivazioni della sua scelta: ciò che gli appare
inammissibile non è la fine ed il fallimento del fascismo, ma il
tradimento implicito nell'armistizio: in primo luogo verso la Patria,
la bandiera e il senso dello Stato che gli sembra sfaldarsi, così
come si è già sfaldato l'esercito.
Non nasconde, però, l'ammirazione per i tedeschi, considerati come
dei veri e propri guerrieri, armati bene e molto pugnaci. E probabilmente,
è imitando loro che il ragazzo imolese A.Z. spera di riaffermare
l'onore "perduto" della Patria. Lui vuole andare al fronte:
la X MAS, già impegnata in combattimenti attorno ad Anzio, è
il suo mito, mentre non ha certamente parole d'ammirazione per le costituite
Brigate Nere: la guerra civile e la lotta contro i partigiani, altri italiani
come lui, non lo interessa, anzi ha un moto di rifiuto di fronte a questa
prospettiva.
E finalmente, dopo l'addestramento e un periodo di scarso impegno operativo
lontano dal fronte ("I tedeschi continuavano a diffidare; l'ordine
era quello di difenderci da tutti quelli che ci sparavano addosso."),
quando il disperato bisogno di uomini fa superare ai tedeschi anche le
ultime reticenze circa l'affidabilità degli italiani, A.Z. ed i
suoi compagni vengono schierati in linea sull'Appennino bolognese. Siamo
nella primavera del '45: la fine del conflitto ormai è vicina,
ma è con evidente orgoglio che A.Z. racconta come, dopo giorni
di durissima battaglia, siano i giovani ed inesperti italiani a resistere
ancora, mentre, ai loro fianchi, le unità tedesche già si
sono ritirate sotto il fortissimo fuoco americano.
Riguardo alla sua scelta A.Z. dichiara di non aver avuto rimpianti, nonostante
le immaginabili difficoltà del dopoguerra che lo costrinsero ad
un periodo di "esilio" in Francia, presso un suo parente. La
cosa che però lo ha infastidito di più è il fatto
che molti degli ex - sedicenti fascisti imolesi, che quando era un ragazzino
lo esaltavano e gli facevano i complimenti, ora si volgevano dall'altra
parte pur di far finta di non vederlo. Quella scelta ha profondamente
cambiato la sua vita e A.Z. ritiene che, confrontandola con le altre fatte
in seguito, nessuna abbia avuto un peso così determinante.
E' sorprendente notare, come
le stesse motivazioni che indussero A.Z. a compiere la sua scelta, ritornino
puntualmente, espresse, quasi con il medesimo linguaggio, nel bello e
coraggioso libro La fine di una stagione, del prof. Roberto
Vivarelli (nato a Siena nel '29, poi docente di Storia contemporanea
presso la Scuola Normale Superiore di Pisa), dove, a settant'anni ormai
compiuti, egli ci parla, con straordinaria lucidità e partecipazione
delle motivazioni personali ed ideali che lo spinsero, a soli 14 anni,
ad aderire alla Repubblica di Salò. Certamente la massiccia e retorica
propaganda fascista nelle scuole, ma ancor più la morte del padre,
ucciso dai partigiani serbi sul fronte jugoslavo, e la decisione del fratello
maggiore di entrare nella X Mas, influirono in modo sostanziale, com'egli
stesso ammette, sulla sua scelta di arruolarsi, nell'estate del 1944,
nelle Brigate Nere di Pavolini, che lo portò a vivere i mesi della
guerra civile fra attentati gappisti (GAP - Gruppi di Azione Patriottica)
e rastrellamenti contro i partigiani. Ma sono i valori dell'onore e dell'amore
verso la Patria, uniti ad un profondo e malinteso, dico io, senso del
dovere, che, più di ogni altra ragione, producono nell'animo del
giovane toscano la sensazione, gradualmente maturata nel corso dell'estate
del '43, di un vero e proprio tradimento, consumato del tutto con la firma
dell'armistizio, sia verso l'ammirato alleato germanico, sia in generale
verso quella Patria per la quale suo padre ha invece dimostrato, con il
sacrificio della sua stessa vita, l'amore e la fedeltà che le portava.
Sono questi sentimenti, che Vivarelli
non esita a definire "risorgimentali" più ancora che
fascisti che lo portano a dirigere tutto il suo entusiasmo, il vigore
giovanile, la voglia di fare , verso la Repubblica di Salò. L'idea
di combattere per un'ideale, il porre in primo piano valori come il dovere
e la patria e quindi il prevalere dell'azione su tutto il resto, giocarono
un ruolo fondamentale in questa scelta. Vivarelli
era uno spirito vivo, un volontario, era pronto a morire.
Ora, secondo la mia opinione, il punto fondamentale sta nel riuscire a
capire ed immedesimarsi nella situazione in cui si trovava il giovane
Roberto l'8 settembre 1943 e dare il giusto valore ai pensieri e alle
meditazioni riportate in questo libro, alla luce di più di cinquant'anni
di riflessione. Riporto qui alcuni estratti dell' epilogo del libro, che
giudico particolarmente importanti per meglio comprendere la maturazione
dell'autore:"
Che la parte nella quale mi ero ritrovato a militare
non fosse quella moralmente giusta, lo avevo già capito poche settimane
dopo la fine. Nell'estate del 1945, a Milano, le autorità alleate
proiettarono in alcuni cinema del centro una serie di documentari sui
campi di concentramento tedeschi. Non avrei neanche potuto immaginare
che i tedeschi, quegli alleati verso i quali avevo ritenuto si dovesse
rimanere fedeli, fossero capaci di tali atrocità ...[Tramite] la
lettura regolare del "Mondo" di Mario Pannunzio, che cominciò
a uscire nel febbraio del 1949... [e] la collezione completa del "Politecnico"
di Vittorini
si venne formando una mia cultura. In questa cultura
non c'era più posto per il fascismo; ma non perché io fossi
cambiato e il mio modo di sentire non fosse più quello di un tempo.
In realtà, allora e sino ad oggi, io credo di essere rimasto del
tutto fedele, nel fondo, a quegli insegnamenti appresi sin da bambino
in famiglia, e conformi ad un quadro ottocentesco, che mi è ancora
caro... Ciò che gradualmente cambiò' fu la mia percezione
dei fatti che avevo almeno in parte vissuto, sicché, senza in alcun
modo mutare il mio quadro di valori e il mio stato d'animo, cioè
la valutazione di ciò che è bene e ciò che è
male, cominciai a giudicare quelle esperienze assai diversamente da come
le giudicavo prima."
"
vi possono essere tra coloro che sono stati fascisti persone
meritevoli del massimo rispetto, così come ci possono essere persone
indegne di ogni stima tra coloro che il fascismo lo hanno combattuto,
trovarsi dall'una o dall'altra parte della barricata dipende il piu' delle
volte dalle circostanze: le ragioni della vita non coincidono con quelle
della storia (la sottolineatura è mia)
A qualcuno che oggi
mi chiedesse se sono "pentito" di avere combattuto nelle file
della disprezzata Repubblica di Salò, risponderei che non soltanto
non sono pentito, ma ne sono a mio modo orgoglioso, pur essendo oggi consapevole
che la causa era moralmente e storicamente ingiusta. No, di quella scelta
non mi pento affatto, e ciò per almeno due ragioni. In primo luogo,
non mi dispiace essermi trovato dalla parte dei vinti, e tanto più
avendo fatto la mia scelta quando era già prevedibile come sarebbero
finite le cose. Certi debiti di fedeltà vanno pagati anche se costa
la sconfitta. E poi trovarsi dalla parte dei vinti ha i suoi vantaggi:
è una buona lezione di modestia. Costringe ad un approfondito esame
di coscienza, o almeno lo consente assai di più che non il trovarsi
dalla parte dei vincitori
In secondo luogo non sono pentito, e anzi
rifarei tutto quello che ho fatto, semplicemente perché la mia
personale storia non mi consentiva altra scelta."
"Gli esseri umani sono, sempre, solo relativamente liberi, perché
non sta a noi scegliere quando, come e dove si nasce, quando, come e dove
si muore. Le situazioni nelle quali ci veniamo a trovare dipendono, il
più delle volte, da circostanze di cui non siamo responsabili,
ed è all'interno di queste circostanze che ci è concesso
di offrire la nostra opera, cioè di fare la nostra parte. Nello
svolgere quest'opera, ciascuno è responsabile della propria condotta,
e in ciò siamo effettivamente liberi. Ma sul piano della vita pubblica
solo a posteriori sapremo, il più delle volte, se la parte nella
quale ci siamo trovati ad agire, la parte che ci è stata data,
è quella che, più tardi, la storia dichiarerà giusta
o sbagliata. Allora dopo l'8 settembre 1943, io feci semplicemente quello
che ritenevo il mio dovere, e credo che basti."La maturazione di
Vivarelli, in senso antifascista
c'è poi stata; una maturazione morale oltre che politica. Ma allo
stesso tempo l'autore non si dichiara "pentito", anzi, ritiene
quella scelta fondamentale per il suo successivo percorso, proprio perché
stare dalla parte dei "vinti" gli ha dato modo di riflettere
più a fondo che se fosse stato vincitore; a quel tempo, la sua
storia personale non gli avrebbe, del resto, consentito altra possibilità
e sembra quindi concludere che sia lo stesso osare una scelta in coerenza
con se stessi la condizione necessaria di ogni vera maturazione, perché
senza il peso dell'errore commesso la sua sarebbe stata certamente più
superficiale e meno convinta. E', insomma, l'onestà dell'intenzione
che da un lato, kantianamente, lo assolve, e dall'altro gli permette di
crescere.
Posto in questi termini, e riferito a dei ragazzini quali erano Vivarelli
e A.Z. nel 1943, il discorso mi sembra, in linea di massima, accettabile;
certo è che radicalizzarne troppo la portata, riferendolo anche
a uomini maturi che avevano avuto modo di conoscere bene cosa era il fascismo,
mi pare fargli perdere parte della sua consistenza, almeno di non dare
per scontati la totale impotenza della ragione critica e una considerazione
radicalmente fatalista del destino umano. Ciò non toglie che condivida
appieno come il "trovarsi dall'una o dall'altra parte della barricata
dipende il piu' delle volte dalle circostanze", e come non sempre
"le ragioni della vita non coincidono con quelle della storia";
ritengo quindi giusto distinguere tra il valore di chi sceglie e quello
della scelta da lui fatta. Ne consegue che se la riabilitazione di alcuni
degli ex - repubblichini è, per me, ora possibile, anzi auspicabile,
certamente resta inammissibile giustificare, con essi, anche il fascismo.
Ho, comunque, apprezzato moltissimo questo libro, per il coraggio dimostrato
dall'autore, per il fatto che mi ha mostrato un punto di vista completamente
diverso dal mio, per la possibilità che mi ha dato di riflettere
sul tema della scelta e credo che non ascoltarne le ragioni in nome di
un incorrotto antifascismo, come da alcune parti si è tentato di
fare, sarebbe un atteggiamento paradossalmente "fascista".
PARTE SECONDA
"La morte della Patria"
Contemporaneamente alla preparazione
di questa mia breve ricerca, si è aperto sui principali quotidiani
italiani ("Il Corriere della Sera" e "La Repubblica"
dei primi di marzo 2001), un importante dibattito intorno al significato
che l'8 settembre assunse per la storia della nostra identità nazionale.
Esso si è sviluppato attorno all'ipotesi, sintetizzata nel titolo
di "Morte della Patria" (ispirata dal prof. De Felice, ma compiutamente
formulata dal prof. Galli della Loggia), che, quella data fatidica, segnò
la fine del già ambiguo sentimento patrio degli italiani.
La diretta pertinenza che tale discussione ha con la mia ricerca, mi ha
perciò indotto a introdurla nel lavoro che andavo elaborando. Senza
la pretesa di proporre soluzioni del problema, ho però ritenuto
utile, riassumere le posizioni dei così detti "teorici della
morte della Patria" e raccogliere i più importanti interventi
apparsi sulla stampa, nella convinzione che le storie di vita fin qui
raccontate, poste in questa prospettiva, possano acquistare, agli occhi
del lettore, un più compiuto significato storiografico.
I teorici
della morte della Patria
Renzo De Felice in un suo libretto
- intervista intitolato Il rosso e il nero (1995), che ha fatto molto
discutere, ha riassunto le sue considerazioni intorno al fascismo, all'antifascismo
e alla questione - recentemente sollevata - della perdita del senso dell'identità
nazionale degli italiani a seguito dell'8 settembre. Le sue argomentazioni
sono piuttosto complesse e derivano dalla sua lunga ricerca storiografica
su Mussolini ed il fascismo; le riassumeremo per punti e solo per la parte
che attiene al nostro discorso.
a) Secondo De Felice, con l'8
settembre 1943 si sarebbe consumata, nella coscienza popolare degli italiani,
una catastrofe ideale che avrebbe "minato per sempre la memoria collettiva
nazionale". Non lo dice esplicitamente nella sua intervista, ma il
lettore finisce per intendere che, secondo lui, sotto il fascismo (forse
proprio per merito del fascismo?), gli italiani maturarono effettivamente
un senso di appartenenza nazionale. Lo si inferisce da argomentazioni
di questo genere: "il sentimento comune degli italiani, alla fine
degli anni Trenta, era di totale fiducia per Mussolini; controllando bene
le cifre, si scopre che la partecipazione volontaria alla seconda guerra
mondiale fu maggiore che nella Grande Guerra."
b) La Resistenza fu principalmente
opera di una minoranza, ed ebbe oltretutto scarso valore militare. De
Felice a questo proposito entra nel merito delle cifre; "
ho
pensato di fare un conto, approssimativo ma significativo per poter delimitare
il numero degli individui coinvolti dall'una o dall'altra parte: sono
arrivato a 3 milioni e mezzo / 4 milioni, mettendo insieme familiari stretti,
parenti lontani e amici vicini. Pochi, rispetto ai 44 milioni di persone
che abitavano allora l'Italia." Questa argomentazione viene poi usata
per contestare il fatto che la Resistenza possa aver riscattato o almeno
compensato la disfatta morale dell'8 settembre e per sostenere, collateralmente,
che la retorica della Resistenza è stata creata dai partiti "antifascisti"
del dopoguerra.
c) Secondo De Felice l'attendismo
fu la reazione più diffusa degli italiani nel periodo compreso
tra l'8 settembre '43 e il 25 aprile '45, dando così luogo alla
formazione di una ampia "zona grigia" di cittadini il cui obiettivo
prevalente era quello di salvare la pelle e aspettare la pace. De Felice
usa il termine "opportunità" invece di opportunismo.
Scrive lo storico: "la gran massa degli italiani, sebbene furono
pochi quelli che riuscirono a non essere coinvolti, non solo evitò
di prendere una chiara posizione per la Resistenza, ma si guardò
bene dallo schierarsi a favore della Rsi". Persa la fede nella patria,
gli italiani sembrano ora, nella visione di De Felice, una massa informe
dalla corta prospettiva morale, pronti per essere ulteriormente ingannati
dai partiti antifascisti.
d) Il ruolo della Resistenza viene ulteriormente squalificato in base
agli esiti successivi: "Dopo il 25 aprile, non fu infatti la Resistenza
ad andare al potere, bensì saranno "due partiti nuovi",
a conquistare il consenso delle masse. Dietro di loro due grandi potenze:
la Russia di Stalin e il Vaticano di Pio XII ". Indubbiamente De
Felice accusa gli storici dell'antifascismo di avere creato di sana pianta
il mito della lotta di popolo.
e) Questo complesso di eventi
avrebbe determinato la mancanza di senso della nazione negli italiani
di ieri e di oggi.
f) In un certo senso anche
De Felice concorda con l'insufficienza della forma giuridica nel determinare
la fondazione del nuovo patto nazionale. Afferma infatti "Il Patriottismo
della nazione e il Patriottismo della Costituzione, per me non sono in
contraddizione. Solo che senza la Nazione non ci può essere Costituzione,
vale a dire i valori che danno corpo al Patriottismo della Costituzione
sono dei valori espressi dalla storia, dalla cultura, dalle vicende di
un determinato paese non da una astrazione giuridica." De Felice
in un certo senso difende la Costituzione repubblicana: ciò che
è venuto a mancare in Italia - è la Nazione. "Se c'è
colpa non è della Costituzione. E' dello scarso patriottismo dei
partiti italiani, da allora a oggi."
Posizioni molto simili a quelle di De Felice sono state espresse da Ernesto
Galli della Loggia, nel suo libro La morte della Patria. Con maggiore
consequenzialità, ma anche con maggiore veemenza polemica, egli
sostiene:" L'espressione "morte della patria" mi sembra
la più adatta per definire la profondità, la ricchezza di
implicazioni, in una parola la qualità tutta particolare che ha
avuto in Italia la crisi dell'idea di nazione in conseguenza della seconda
guerra mondiale". Si tratta dunque di una radicalizzazione della
visione di De Felice: la morte della patria è un concetto appropriato
" perché in essa molti italiani vedono e sentono coinvolto
lo stesso vincolo di appartenenza ad una medesima comunità nazionale,
nonché il senso di tale vincolo"
Quali furono le cause e la
dinamica della così detta "morte della patria"?
Galli della Loggia muove dalla
premessa secondo cui, nella storia d'Italia, l'idea di nazione non si
è sviluppata spontaneamente, ma è stata introdotta attraverso
una sorta di "nazionalizzazione" delle masse prodotta dallo
Stato unitario, per cui il concetto e il sentimento di patria per gli
italiani erano ideologicamente e strettamente intrecciati alla presenza
dello Stato.
Due fenomeni convergono dunque
sull'8 settembre:
la crisi e la scomparsa dello
Stato, in conseguenza delle modalità della sconfitta bellica;
"la sensazione diffusa
in moltissimi abitanti della penisola che la sconfitta, in realtà
è stata causa e insieme prodotto e manifestazione di qualcosa di
molto grave e profondo: di una paurosa debolezza etico - politica
degli
italiani." In altri punti si parla di "intima gracilità
dell'organismo e della tempra nazionali"
"Emerge dunque un dato
nella sua sostanza pre o meta - politica, difficilmente collegabile in
modo diretto e significativo al fascismo e ai guasti della dittatura",
per cui la crisi politico - militare non sarebbe del tutto spiegabile
con le sole responsabilità del fascismo, ma facendo riferimento
a un difetto nazionale d'origine: "la crisi politico - militare presenta
una mancanza di capacità e di efficienza degli apparati amministrativi
e tecnici, la quale riflette a propria volta un deficit di competenza
unito a un vuoto spirituale, di carattere, che trascendono il regime e
mettono in gioco, la credibilità della sfera pubblico - statuale
del Paese." Galli della Loggia tenta quindi di radicare l'insufficiente
identità italiana in una dimensione quasi antropologica, una dimensione
profonda, non facilmente aggirabile.
Infine della Loggia sembra seguire uno schema che si avvicina a quello
di De Felice: gli italiani, traumatizzati dalla rivelazione della loro
debolezza costitutiva, sarebbero caduti nelle mani della partitocrazia
che avrebbe costruito la retorica antifascista, ma non avrebbe posto rimedio
alla debolezza dell'identità nazionale.
Ciampi e la Patria: è polemica!
Il Presidente della Repubblica
ha il diritto di intervenire sulle questioni della storia patria. E' uno
degli argomenti centrali della risposta, cortese ma molto ferma, che Carlo
Azeglio Ciampi ha riservato alla lettera polemica indirizzatagli dallo
storico Ernesto Galli della Loggia sulla "morte della patria",
pubblicata sul Corriere della Sera il 4 marzo 2001 e riportata qui sotto.
A far scattare il duello storiografico tra il Presidente e il Professore
sono stati gli argomenti riportati in un articolo apparso su Repubblica
il giorno prima, con cui Ciampi, al ritorno da Cefalonia (dove è
stata commemorata l'eroica resistenza di 6500 soldati italiani trucidati
dai nazisti dopo l'8 settembre 1943), aveva contestato la validità
di quella formula, scelta in diversi saggi da Galli della Loggia per spiegare
la storia italiana dall'armistizio in poi.
Ma per Galli della Loggia non risulta del tutto legittimo quell'intervento.
" Non avrei mai immaginato, scrive tra l'altro lo storico, di esser
costretto un giorno a dover discutere i risultati della mia ricerca con
il capo dello Stato, di dover rendere conto a lui di quei medesimi risultati,
di doverli difendere dalle critiche della più alta carica politica
del mio Paese". Quasi un'accusa d'ingerenza politica, se non di un
indebito condizionamento della libertà di ricerca.
Anche per questo il presidente ha voluto rispondere di persona , e senza
lasciare passare neppure ventiquattro ore, rivendicando il diritto di
ogni cittadino, compreso il Capo dello Stato di discutere i risultati
di una ricerca storica e confermando con ancor maggiore forza la sua posizione:
ovvero, che la tesi della "morte della patria", secondo cui
il senso di un'appartenenza nazionale degli italiani sarebbe andato distrutto
con l'armistizio dell'8 settembre e la successiva fuga del re, tradisca
tanta parte della storia di quegli anni, nonché gli innumerevoli
atti di coraggio e di eroismo compiuti da tanti cittadini comuni proprio
in nome della fedeltà alla patria.
Soprattutto su questo Ciampi si è soffermato, sia nella commemorazione
dei caduti dell'isola dell'Egeo, sia nel suo colloquio con Mario Pirani
su Repubblica: " Fu la fedeltà ai valori nazionali e risorgimentali
che diede compattezza alla scelta di combattere
Ho voluto ricordare
che la rottura dell'Italia con il fascismo non si è prodotta l'8
settembre, ma il 25 luglio, quando Mussolini venne defenestrato".
Negli articoli di Giorgio Bocca e di Eugenio Scalfari, anch'essi di seguito
riportati, viene rafforzata la posizione presa dal Capo dello Stato e
non mancano forti critiche al "cattedratico" Eugenio Galli della
Loggia.
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