Laboratorio di Storia Locale

Leonardi Davide
Quali scelte? Quale Patria? Da alcuni casi romagnoli al dibattito attuale

 

 

PARTE PRIMA

Cronologia degli eventi italiani dal 25 luglio all'8 settembre 1943

Dopo tre anni di guerra combattuta nel deserto libico, gli Alleati partirono dall'Africa settentrionale, all'attacco della "fortezza" Europa, ancora occupata dalle truppe nazi-fasciste. Prima tappa, lo sbarco in Sicilia, che avvenne tra il 9 e il 10 luglio 1943.
Nonostante i proclami del duce, una dura resistenza italiana non ci fu e gli Alleati, dopo aver conquistato l'isola, iniziarono la risalita dell'Italia. L'invasione della Sicilia fece da detonatore alla profonda crisi del regime fascista, progressivamente indebolito dalla fallimentare conduzione della guerra e scosso da insanabili contrasti interni, segnando il destino politico di Mussolini.
Già a partire dal 20 luglio si manifesta chiaramente la volontà del re di porre fine al governo Mussolini e alla guerra. Il sovrano incarica il duca d'Acquarone di procedere alle necessarie consultazioni per la destituzione del duce.
Si trovano d'accordo con il re, alcuni esponenti di primo piano del Gran Consiglio del Fascismo, come Grandi, Ciano e Bottai e ed alcuni quadri dell'esercito, come il generale d'armata Vittorio Ambrosio.
Riportiamo di seguito, in una breve cronologia, i principali avvenimenti che portarono dalla caduta di Mussolini all'armistizio dell'8 settembre:

25 luglio: Grandi presenta al Gran Consiglio un ordine del giorno col quale s'invita il duce a rassegnare gran parte dei suoi poteri nelle mani del sovrano, che viene approvato con 19 voti contro 7 e dichiara la "sfiducia" a Mussolini che, sentendosi inattaccabile, non se ne dà per inteso. A questo punto il re ne ordina l'arresto, assume il controllo delle Forze Armate e nomina il maresciallo Pietro Badoglio a capo del governo militare del Paese con pieni poteri.
All'annuncio della caduta del fascismo, la gente si riversa nelle piazze e nelle strade di tutta Italia per festeggiare la fine della dittatura, i giornali iniziano a scrivere liberamente le proprie opinioni e vengono liberati i prigionieri politici. Ma, come dichiara il governo, "la guerra continua"
26 luglio: Alla notizia della caduta del fascismo, l'ambasciatore tedesco Mackensen, si precipita da Badoglio. Il maresciallo lo assicura solennemente che l'Italia continuerà la guerra e che il mutamento di governo rappresenta un affare interno che non prelude a mutamenti nei rapporti fra le potenza dell'Asse. I tedeschi, comunque, decisi più che mai a ristabilire l'ordine e per niente fiduciosi nelle dichiarazioni di Badoglio e dei diplomatici italiani, decidono di inviare reparti di paracadutisti a Roma e organizzano le operazioni necessarie ad assicurarsi il controllo militare della penisola.
Nel frattempo si forma il governo. Degli esponenti del Gran Consiglio che avevano votato la caduta di Mussolini, neanche uno fu nominato ministro. Sono però chiamati a partecipare all'esecutivo, perlopiù vecchi esponenti fascisti, poiché il re, in caso contrario, teme di perdere credibilità, avendo lui appoggiato, per più venti anni, il regime. Ma anche perché gli antifascisti sono in maggior parte repubblicani.
Dalle manifestazioni di piazza appare chiara la volontà del popolo italiano di farla finita con la guerra e raggiungere, nel più breve tempo possibile, la pace.
28 luglio: Badoglio adotta severe misure di sicurezza: il suo edificio viene fatto sorvegliare giorno e notte da soldati armati di mitra mentre i granatieri controllano la zona circostante; viene attivato il coprifuoco e l'obbligo di circolare con un documento di identità; viene vietata la libertà di stampa e di riunione; i permessi di porto d'armi sono dichiarati tutti scaduti; si ricorre alla legge marziale, cosa mai avvenuta prima (la repressione si rivelerà violenta causando, a seguito delle manifestazioni pubbliche , decine di morti e centinaia di feriti in tutta Italia; 3500 le persone che, nei 45 giorni seguenti, subiranno condanne da un minimo di sei mesi a un massimo di 18 anni nelle 20 principali città italiane). Intanto, nel paese, i prodotti alimentari scarseggiano e, spesso, neanche il razionamento dei viveri è più sufficiente.
Il re, su indicazione di Badoglio, nomina senatori alcuni anti-fascisti, tra cui Bonomi ed Orlando, per premiarli della buona disposizione nei confronti del nuovo governo, e chiede un periodo di tregua politica e propagandistica per non peggiorare le cose. Fanno ritorno in Italia alcuni esuli politici come Amendola e La Malfa, altri ci provano e falliscono, come Saragat. La maggior parte degli attivisti anti-fascisti non crea, comunque, opposizione al Governo e si limita a rispettare le leggi imposte da Badoglio. Si segue la corrente.
Mussolini viene imprigionato a Gaeta e gli viene preparato un alloggio nei pressi di Santa Maria.
Nel frattempo Hitler prepara i suoi piani:
- piano EICHE: liberazione di Mussolini.
- piano STUDENT: cattura a Roma di tutti i membri del Governo e dei principali esponenti politici antifascisti; restaurazione del fascismo.
- piano SWARZE: occupazione delle basi militari italiane e distruzione o cattura della flotta.
- piano ALARICH: occupazione del territorio italiano e disarmo generale dell'esercito italiano
30 luglio: I diplomatici italiani Marras e Lanza si recano da Hitler per chiarire la posizione di Badoglio: si ribadisce che la guerra continua al fianco dei tedeschi. Contemporaneamente, però, truppe tedesche valicano il passo del Brennero e penetrano nelle valli dell'Alto Adige e la loro diffidenza nei confronti degli italiani aumenta.
4 agosto: Hanno luogo i primi contatti diretti del governo Badoglio con gli Alleati: sono gli incontri tra l'ambasciatore Lanza d'Ajeta e l'ambasciatore inglese sir Ronald Campbell, e tra il diplomatico italiano Berio e l'alleato Watkinson.
8 agosto: I tedeschi riducono dei 2/3 le forniture di carbone all'Italia e requisiscono quasi completamente quelle di petrolio, oltre al grano già acquistato dalla Romania.
12 agosto: Più di 2000 tonnellate di bombe vengono sganciate da aerei alleati su Milano
13 agosto: Gli Alleati, comunicano a Berio che non intendono trattare, ma vogliono la resa incondizionata dell'Italia. Centinaia di tonnellate di bombe vengono sganciate su Roma dall'aviazione alleata comandata dal generale Doolittle.
14 agosto: Roma viene dichiarata Città Aperta. Nelle intenzioni del governo ciò dovrebbe risparmiare ulteriori bombardamenti su Roma. La dichiarazione italiana, essendo un atto unilaterale, lascia però al comando alleato completa libertà d'azione. Si cerca di mantenere truppe in città "clandestinamente", facendo girare i soldati in abiti borghesi, ma il trucco è scoperto dagli Alleati che continuano a bombardare.
15 agosto: Mentre il generale Roatta, si incontra con i colleghi tedeschi Jodl e Rommel giurando solennemente la lealtà dell'Italia e la volontà di mantenere l'alleanza con la Germania, l'ambasciatore Castellano si reca a Madrid per le prime trattative con gli Alleati. E' la tattica del "doppio binario" seguita da Badoglio: mantenere l'alleanza con i tedeschi e segretamente avviare le trattative per l'armistizio con gli anglo - americani.
Intanto, non si ferma l'afflusso di forze tedesche verso la penisola e vengono costituiti 2 presidi militari nel sud del paese: il primo, al comando del generale Kesserling, in Puglia, il secondo, con a capo Rommel, nella zona Napoli-Salerno. Scarso è però l'accordo tra i 2 comandi per l'incompatibilità dei loro capi: mentre Rommel risulta inflessibile e dà seguito alle direttive di Berlino sempre con rigore e rigidità, Kesserling dimostra una certa "disponibilità" nei confronti dell'esercito italiano e delle esigenze manifestate dai suoi comandanti.
17 agosto: Le armate alleate, la 7^ armata statunitense di Patton e l'8^ armata inglese di
Montgomery, ai comandi del generale inglese H. Alexander portano a termine la conquista della Sicilia facendo ricorso anche agli utili rapporti con la mafia siciliana, che alcuni noti esponenti italo-americani di Cosa Nostra mettono a disposizione del comando alleato.
19 agosto: A Lisbona avviene l'incontro segreto tra Castellano, Bedell Smith e Kenneth Strong. Durante l'incontro i 2 ambasciatori alleati illustrano le clausole poste a condizione dell'armistizio. Castellano rivela importanti segreti militari, come la dislocazione delle truppe tedesche ed italiane.
24 agosto: Il re, per niente soddisfatto della politica di Badoglio, avverte Grandi che presto sarebbe stato chiamato ad alti incarichi. Badoglio, come contromossa, fa circolare la notizia che i tedeschi sono pronti ad un colpo di mano per impadronirsi di Roma. Muti, scomodo avversario politico di Badoglio, viene ucciso in circostanze misteriose.
Il maresciallo tenta la prova di forza, decidendo di dare la caccia ai fascisti. Tra questi: Bottai, Starace, Luigi Freddi, Claretta Petacci, Ciano. Quest'ultimo fugge in Germania sotto la protezione diretta di Hitler, perché stretto parente di Mussolini, ma viene definito dai fascisti "il traditore del 25 luglio".
Il generale Zanussi viene mandato a sostituire Castellano, di cui non si hanno più notizie, ma è scambiato per una spia e solo in seguito a un interrogatorio che si prolunga fino al 30 agosto e ad una spiegazione di Badoglio, il suo caso verrà risolto.
27 agosto: Dopo vari ed inutili tentativi di mettersi in contatto con il governo, Castellano e il suo traduttore Montanari arrivano a Roma, sapendo che se avessero tardato oltre il 30 agosto, l'armistizio sarebbe stato rifiutato dagli Alleati. Queste le condizioni poste dagli Alleati:
1.L'Italia deve accettare le condizioni e modalità di resa.
2. Gli sbarchi alleati, concordati con gli italiani, per la difesa di Roma non prevedono 15 divisioni, come richiesto dal governo Badoglio, ma solo 5, max 6, divisioni.
3. Lo sbarco principale avverrà a sud di Roma senza opposizione italiana, e sarà accompagnato dal lancio alla periferia della capitale della 82^ divisione aviotrasportata americana, e dall'arrivo per mare di un centinaio di pezzi anticarro alla foce del Tevere.
4. sei ore dopo lo sbarco si darà annuncio dell'armistizio da entrambe le parti.
29 agosto: Hitler ancora una volta diffidente del governo italiano, manda il generale von Rintelen a manifestare gli espliciti dubbi del Fuehrer sulla lealtà di Badoglio.
2 settembre: Castellano si reca in Sicilia per ultimare l'accordo e ufficializzarlo firmando il
documento,ma con sorpresa degli Alleati, l'ambasciatore italiano è sprovvisto della delega necessaria per porre la firma e dare validità all'armistizio.
Nel frattempo l'8^ armata britannica è già sbarcata, senza incontrare difficoltà, sulla punta dello stivale, impadronendosi di Reggio Calabria e del suo aeroporto
3 settembre: Alle ore 17.15 Castellano firma l'armistizio dopo avere ottenuto la delega dal governo con un telegramma del maresciallo Badoglio. Nella notte tra il 3 e il 4 viene studiata, punto per punto, l'operazione Giants II che dovrebbe permettere agli alleati di prendere il controllo di Roma. Castellano non viene però messo al corrente della data esatta dello sbarco e neanche del luogo: le sue previsioni lo portano ad ipotizzare il 12 settembre e così riferisce a Badoglio. Questo avrà tragiche conseguenze sulla sorte dell'operazione e dell'intera nazione.
6 settembre: Inspiegabile partenza del generale Ambrosio da Roma; il giorno seguente è previsto l'arrivo dell'ambasciatore Taylor per accordi in merito all'operazione Giants II
7 settembre: Si fanno tutti i preparativi per la fuga del re. Le truppe anglo-americane si preparano per lo sbarco.
Taylor e Gardiner si recano a Roma e con inevitabile sorpresa da parte dei comandi italiani, informano che la data dello sbarco, prevista da Badoglio per il 12 settembre, viene anticipata di 4 giorni, all' 8. A questo punto è la confusione più completa, e ciò determinerà la decisone degli alleati di annullare l'operazione. Si richiede, comunque, a Badoglio l'annuncio dell'armistizio al popolo italiano.
8 settembre: Il generale Badoglio sotto la pressione diretta del generale Eisenhower, alle h. 19,45, annuncia l'avvenuta firma dell'armistizio alla radio. Eccone il testo: " Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsialsi altra provenienza."

Confusione massima

L'annuncio dell'8 settembre 1943 segna il culmine di quello stato di confusione degli apparati dello stato e dell'esercito che ormai si protraeva fin dal 25 luglio.
Il popolo italiano è diviso da sentimenti contrastanti: da un lato è chiaro il desiderio di staccarsi definitivamente dall'opprimente alleanza con la Germania e cercare l'aiuto concreto delle forze anglo - americane, ma dall'altro si teme la ferocissima repressione del nuovo nemico tedesco, già presente in forze sul territorio nazionale. L'ambiguità del messaggio di Badoglio, poi, non aiuta certo a risolvere tale dilemma. Ogni uomo italiano è solo davanti ad una scelta che, nel bene o nel male, segnerà profondamente, fino spesso alla morte, la vita di ciascuno.
Ad aumentare il caos, il 12 settembre i paracadutisti tedeschi di Skorzeny liberano Mussolini dalla sua prigionia sul Gran Sasso.
Ma è nell'esercito che la confusione raggiunge i suoi massimi livelli d'incertezza e precarietà. Nelle caserme mancano del tutto le istruzioni dei comandi superiori e molte vengono letteralmente abbandonate dagli ufficiali che lasciano, così, i loro soldati al proprio destino.
Per questa ragione è dalle interviste fatte ad alcuni miei concittadini, che in quel tempo erano tra quei militari che più di altri italiani subirono l'urgenza del dover decidere cosa fare senza sapere cosa succedeva loro intorno, che inizio questa mia breve indagine sui motivi che portarono a scelte diametralmente opposte, ma tutte ugualmente decisive per chi le fece.

Nelle caserme in Italia ...

Il primo è Domenico Garotti. Solarolese, ha 21 anni nel 1940 quando l'Italia entra in guerra a fianco della Germania. Figlio di un mezzadro, viene arruolato al posto del fratello, che era stato dichiarato "rivedibile" nel 1939. Nasce, dunque, da un malinteso il suo arruolamento. Fatto sta che Domenico si ritrova su di una nave diretta in Libia , dove rimarrà per 3 anni e 3 mesi, sempre in prima linea durante tutte le fasi decisive della guerra d'Africa, dalle varie battaglie per Tobruk a quella decisiva di El Alamein, fino alla ritirata finale verso Tunisi.
E' grazie alla decisione di Rommel di rimpatriare i soldati che avevano combattuto per più di 3 anni nel deserto africano, che Garotti può finalmente tornare a casa nell'aprile del 1943, appena pochi giorni prima della definitiva capitolazione delle forze dell'Asse in Africa settentrionale avvenuta il 7 di maggio.
La sua licenza è però breve perché viene subito rispedito in servizio a Modena. E' lì che, nella mattina del 9 settembre, dopo avere ascoltato nella notte l'annuncio dell'armistizio, Domenico ed i suoi compagni si ritrovano in una caserma ormai vuota, dove gli ufficiali sono tutti fuggiti. Dopo un primo momento di sbandamento collettivo, in cui nessuno sa cosa sia più opportuno fare, i soldati decidono, di comune accordo, d'abbandonare la caserma e rientrare alle loro case. In gruppo si recano alla stazione ferroviaria dove scelgono di salire su di un treno diretto a Cento - Ferrara, a causa delle difficoltà di percorrenza della linea diretta per Bologna. Ma quando il treno si ferma a Cento, trovano la stazione occupata da un reparto di SS, che, dopo averli fatti scendere, li costringere a rientrare sotto scorta alla loro caserma di Modena, dove rimangono, in stato di prigionia, per più di 20 giorni.
Garotti intravede la possibilità di una fuga, e mobilita il padre, che lo è venuto a trovare, affinché gli procuri il denaro necessario per corrompere i guardiani. Ma l'annuncio fatto dai tedeschi, che il giorno seguente sarebbero stati tutti liberati, blocca il tentativo d'evasione sul nascere. L'euforia si diffonde tra i soldati, ormai sicuri di poter presto riabbracciare i loro cari. Ma, proprio quando l'idea di un felice ritorno a casa sembra farsi più concreta, il giorno stesso in cui, stando alle informazioni ricevute dai tedeschi, sarebbero stati tutti liberati, l'intera compagnia viene caricata su di un treno e spedita in Germania.
Garotti rimane così, per 27 mesi, ai lavori forzati presso la fabbrica della Bmw, a Baiesdoff, vicino a Berlino, dove si costruiscono ed assemblano componenti per i missili V2. Le condizioni di lavoro sono durissime: orari massacranti, fino a 14 - 15 ore al giorno, continui bombardamenti aerei, ma soprattutto la fame ed il terrore suscitato dalla violenza delle SS contro chi "sgarra" dai ritmi imposti dalla produzione, riducono Domenico ad una larva. Viene anche picchiato a più riprese, fino al giorno dell'aprile '45 in cui le truppe dell'Armata Rossa, occupano Baiesdoff e lo liberano insieme agli altri suoi compagni di prigionia. Ma ci vorranno ancora mesi prima che possa raggiungere Solarolo e riabbracciare i suoi cari dopo circa 6 anni di quasi ininterrotta lontananza, passati, come molti altri militari italiani, prima a combattere con e per i tedeschi e poi a lavorare come loro "schiavo" nelle fabbriche perennemente bombardate della Germania.

 

Romeo Bettoli, mio nonno, partì soldato il 10 settembre 1942, arruolato nel 7° Reggimento "Firenze" del Genio, 4° compagnia fotoelettricisti. Dopo alcuni trasferimenti da Firenze a Chiavari e poi a Pistoia, Bettoli viene mandato in servizio nel meridione d'Italia e nell'aprile del 1943 si trova a Nicastro, in Calabria, nell'entroterra di Lamezia Terme.
Dall'arrivo della notizia della caduta del Duce il 25 di luglio, le informazioni sull'evoluzione della situazione politica e militare, ed in generale i contatti con il resto d'Italia incominciano a farsi sempre più rari e meno precisi. Sprovvisti di ogni mezzo di comunicazione i soldati si affidano alle voci popolari, soprannominate ironicamente "radio scarpa". Quello che in parte si sapeva, ed in parte si "percepiva", era che gli anglo - americani avanzavano in Sicilia, mentre l'esercito italiano, che doveva difenderla, era in gran parte formato da reduci della guerra Libia, molti dei quali stanchi ormai di combattere, dopo aver percorso in lungo e in largo il deserto per più di tre anni, tra sanguinose offensive e disastrose ritirate, fino all'ultima che li aveva visti definitivamente sconfitti e cacciati dal suolo africano. Certo, un qualche sbandamento tra le truppe lo si "percepiva".
Bombardamenti alleati sulla ferrovia tirrenica tagliarono anche gli ultimi collegamenti e Bettoli, "percepito" che ormai le truppe erano allo sbando, partì a piedi con altri compagni, cercando di ritornare a casa, al nord. Arrivati a Cutro, sulla ferrovia ionica vicino a Crotone, chiesero asilo ad un reparto che presidiava una delle poche basi militari italiane non ancora sfollate. Proprio qui appresero la notizia dell'armistizio e seppure il reparto fosse ancora in armi, il disagio e la confusione erano grandi. Non si ricevevano più ordini dai comandi e gli ufficiali non sapevano più come comportarsi. Fatto sta che gli inglesi, già molto vicini, superarono Cutro di slancio per continuare la loro avanzata verso nord. Molti, tra gli italiani, pensavano che in un paio di mesi gli anglo - americani avrebbero avuto ragione dei tedeschi e che la guerra, almeno in Italia, fosse vicina alla fine.
Fu così che Bettoli decise di partire volontario per il fronte, arruolandosi di nuovo, per combattere a fianco degli Alleati, in un esercito italiano in via di ricostituzione, e risalire con esso la penisola fino a casa. Fu spedito a Termoli e da qui cominciò lentamente la risalita dell'Italia, per giungere a Faenza alla fine del '44, dopo essere passato per Bari, Ancona, Pesaro, fino alla Romagna. Un viaggio che però, contrariamente alle aspettative, si rivelò ben più lento dei due mesi sperati.
Appare chiara da questi racconti la confusione massima che si era creata nei reparti e nelle caserme dell'esercito italiano: nessuno sapeva cosa fare esattamente, dove andare; gli ordini erano stati imprecisi e confusi, ammettendo poi che fossero ordini. In queste condizioni ognuno cercò di arrangiarsi a modo proprio. Le scelte di quei soldati, oltre a quelle di migliaia di altri italiani, sono state decisive per il futuro dell'intera nazione e hanno certamente avuto un peso enorme sul futuro personale di chi le fece. Mi pare perciò importante chiedersi se sono state volute od obbligate, ed i fatti che andiamo descrivendo, paiono indicare come le condizioni specifiche in cui questi uomini si trovarono, risultarono, almeno inizialmente, decisive per la loro particolare scelta.
Ciò risulta ancora più evidente per i molti soldati italiani che non si trovavano in Italia al momento dell'armistizio, ma in Grecia, o nei Balcani, o addirittura in Russia. Lontano dalla Patria, spesso circondati da unità tedesche ora diventate ostili, essi furono a volte, là dove l'organizzazione militare tenne, autori di scelte eroiche, come a Cefalonia, a volte, invece, abbandonati dai comandanti e nel generale sbando dei loro reparti, una vera e propria scelta neppure poterono farla, costretti dalla forza maggiore degli eventi a seguire ciascuno il proprio incerto destino.

… e all'estero

A questo proposito ho intervistato Vincenzo Venturelli, un faentino che, a 19 anni, esattamente il 5 settembre 1942, partì soldato per Napoli, arruolato in un'unità diretta in Grecia, il 35° autoreparto. Nel viaggio per l'Albania, con il mare forza 9, perse 20 compagni durante la sola traversata. Fu così che l'8 settembre 1943 Venturelli si trovava ad Atene, quando, rientrato in caserma, via radio, lo raggiunse la notizia del proclama di Badoglio. La prima reazione, ricorda, fu di esultanza generale, ma poi, presto, molti si chiesero come ci si doveva comportare con i tedeschi e come questi avrebbero reagito. All'esultanza, allora, si sostituì repentinamente la preoccupazione circa il loro prossimo destino. Cercando di organizzarsi ciascuno tornò nella propria camerata, per accorgersi però che solo un capitano non era fuggito: tutti gli altri ufficiali erano spariti. Di quella notte Venturelli ricorda perfettamente il viavai della gente e la generale confusione. Ben presto, però, i carri armati tedeschi circondarono la caserma e imposero agli italiani la consegna delle armi, pur concedendo loro la libertà vigilata.
Il 13-14 settembre 1943, tutti i soldati italiani, compreso il nostro Vincenzo, furono scortati alla stazione, con la garanzia, da parte del comandante tedesco, che stavano per essere rimpatriati. L'ufficiale tedesco scomparve ed il treno partì, ma la direzione che prese fu diversa da quella sperata, e i soldati italiani, privi di scorte e di viveri, sopravvissero durante il lungo viaggio scambiando, nelle rare soste, i loro abiti con alimenti.
Giunsero poi a Vienna dove furono perquisiti dai tedeschi e rinchiusi in carri-bestiame, dentro i quali viaggiarono per altri giorni fino ad un campo di smistamento nei pressi di Lipsia, da dove furono infine spediti ai lavori forzati in Cecoslovacchia, presso una fabbrica di benzina sintetica, ottenuta dalla lavorazione del carbone.
In seguito al suo esplicito rifiuto di lavorare, Venturelli si trovò inquadrato nella Compagnia di Disciplina, controllata direttamente dalle SS, e dove la disciplina era, per l'appunto, "paurosamente" rigida. Alle 4.00 iniziavano a lavorare e continuavano per 14 - 15 ore ogni giorno. Venturelli trascorse nella Compagnia di Disciplina 15 giorni terribili, mangiando soltanto 3 o 4 carote o patate, 1 volta al giorno e afferma che, se il gruppo degli italiani non fosse stato trasferito in un altro campo, a Pulgor (18 km da Lipsia), sarebbe certamente morto di stenti. "Più di un mese non riusciva a resistere nessuno".
Nel nuovo campo Venturelli ed i suoi compagni rimasero fino quasi alla fine della guerra. Dopo i primi colpi sparati dall'artiglieria americana, furono infatti "rastrellati" fino a Lipsia, dove poi gli Alleati (francesi, inglesi, americani) nell'aprile del '45, dopo la fuga dei poliziotti tedeschi, li liberarono. Vincenzo Venturelli fu rimpatriato in Italia il 27 giugno 1945.Da questa testimonianza risulta confermato come, in molti casi, i nostri soldati, pur non mancando né di coraggio, né di determinazione (vedi il netto rifiuto di Venturelli al lavoro), furono travolti da eventi così sfavorevoli da impedire loro qualsiasi possibilità di scelta, anche se non può sfuggire come, all'origine delle loro disgrazie, resta la clamorosa defezione dei responsabili dei comandi, gravissima all'estero, dove, ancor più che in Italia, avrebbero almeno dovuto tener ferma, pur nella generale incertezza dei compiti e delle prospettive, la loro diretta responsabilità nei confronti dei propri uomini, che invece, come Venturelli testimonia, furono spesso abbandonati a se stessi. Dove ciò non avvenne, vedi i reparti dell'Egeo, quel coraggio che fu di tanti, ebbe la possibilità d'esprimersi in scelte ardite fino al limite del sacrificio, che, come ancora di recente ha sostenuto il presidente Ciampi, forgiarono, nella resistenza al nazismo, un rinnovato sentimento patrio, che permise a molti italiani di ritrovare, dopo averla persa, una nuova identità e dignità nazionale.

La Resistenza

Una resistenza, quella che cita il Presidente, che fortunatamente per il paese non si fermò sulle coste dell'Egeo, ma via via si estese, sempre più convinta, sempre più dura, in tutta l'Italia non ancora liberata e soprattutto in questa terra emiliana - romagnola dove, possiamo dirlo, fu guerra di popolo, vuoi per la partecipazione diretta alla lotta armata, vuoi indirettamente con il sostegno dato ai combattenti dalla stragrande maggioranza della popolazione locale: "la più feroce e sincera di tutte le guerre" come la definì il noto latinista e comunista Concetto Marchesi.
Non vogliamo aprire qui una discussione sul significato ed il valore che la Resistenza ha avuto nella storia patria, per i quali rinviamo agli allegati sulla "Morte della Patria". Vogliamo solo riportare brevemente il caso di un allora giovanissimo che la preferì, cercando di comprendere le condizioni che gli fecero maturare una simile scelta.

Battista Casanova, anch'egli faentino, è nato il 25 agosto 1925. Figlio di un socialista, frequenta le scuole medie e a quattordici anni, come quasi la totalità dei suoi coetanei, entra nel mondo del lavoro: era impiegato presso una ditta cotoniera, il cui magazzino sorgeva nella Filanda Vecchia. (su Battista Casanova si veda anche il lavoro sugli alleati visti dai faentini)
Ricorda il 25 luglio del'43 e la grande festa in piazza del Popolo, con la gente esultante per la fine del regime, ma anche per la speranza che la guerra stesse per finire e con essa tutte le sofferenze patite. Ricorda i rapporti con le persone, in particolare quelli con il comunista Aldo Celli, poi ucciso dai fascisti. Ma ricorda in particolar modo l'8 settembre, quando la notizia dell'armistizio colse Faenza impreparata: non solo i comuni cittadini, ma anche i reparti militari di stanza nelle caserme ora non più esistenti, e soprattutto i fascisti, alcuni dei quali addirittura si suicidarono. Un gruppo di miliziani si asserragliò nella caserma della 71°legione manfreda (Loggia dei fantini), circondata dalla folla inferocita. Dalle finestre partirono dei colpi e un amico di Casanova, Clemente Ghirlandi, rimase ucciso. Poi arrivarono i Panzer tedeschi, che occuparono tutte le posizioni strategiche della città, ponendo immediatamente fine alla ritrovata libertà.
Occorre tenere presente questi fatti per comprendere come all'instaurazione della Repubblica Sociale e all'obbligo di arruolarsi nelle neo costituite unità militari fasciste, pena la fucilazione, Casanova e alcuni suoi compagni reagirono scegliendo di darsi alla "macchia", fuggendo in montagna. Arrivarono fino al Monte Falterona. Il loro obiettivo era quello di unirsi ai partigiani che operavano da quelle parti e dei quali avevano sentito tanto parlare. Fu così che il diciottenne Battista divenne un "bandito" della Corbari con la quale partecipò attivamente a numerose incursioni ed ad alcuni importanti scontri come quello di San Benedetto in Alpe e della Valle del Tramazzo. Fu anche arrestato dai carabinieri, ma fuggì, da Iesolo, per ritornare sui monti. In seguito la brigata Corbari, morto il suo leggendario capo, fu incorporata nell'8° armata inglese e Casanova partecipò con essa alla presa di Forlì. Ritornato a Faenza profuse il suo sforzo a favore della cittadinanza afflitta dalle distruzioni della guerra
e ha mantenuto fino ad oggi un costante impegno politico.

La Repubblica Sociale

Come già abbiamo detto, mentre al sud il governo Badoglio cercava di rifondare l'esercito e portare a termine la guerra a fianco degli Alleati, al nord, il 23 settembre 1943, fu costituita, la Repubblica Sociale Italiana (RSI) (chiamata così solo il 25 novembre 1943), altrimenti nota come Repubblica di Salò, dal nome della sede prescelta per il suo governo.
Hitler, dopo aver liberato Mussolini, ormai sessantenne, dalla sua prigione sul Gran Sasso, gli impose la costituzione di uno stato italiano fascista e filo - tedesco con lo scopo di "alleggerire "e in qualche misura giustificare l'occupazione tedesca della penisola. I tedeschi, comunque, ormai diffidenti verso gli italiani, compresi quelli ancora fascisti, imposero un controllo più diretto, cercando di recuperare, almeno in parte, l'efficienza di un certo numero di reparti militari italiani e spesso, per ottenere i loro scopi, non esitarono ad utilizzare intimidazioni, repressioni, deportazioni e rastrellamenti.
Va da sé che in queste condizioni il nuovo governo di Mussolini (ma il discorso vale negli stessi, identici termini anche per quello monarchico del sud), ebbe un minimo di poteri, ma ne fece subito uso nei confronti dei cittadini: severo quando si trattò di metterli al passo, prodigo, alla bisogna, di promesse e di misure che li lusingassero e dilaniato dalle fazioni, fu impedito di fatto dall'intervenire nelle questioni concernenti la guerra in corso e apparve presto, agli occhi dei più, nient'altro che quello che era: un fantoccio nelle mani di Hitler.
Ciò nonostante, ed a prescindere da quelli che furono "obbligati" ad aderirvi, la RSI rappresentò per una parte di giovani e giovanissimi italiani un forte richiamo e la ragione di una scelta, spesso non meditata a fondo, ma dura e radicale, fatta per lo più sull'onda dell'indignazione di fronte all'armistizio, letto come un tradimento, non solo e non principalmente nei confronti dell'alleato tedesco, ma di quegli stessi valori di Patria ed onore, al rispetto dei quali erano stati educati fin dall'infanzia.

Tra questi giovani, c'era anche A.Z. di Imola. Nato nel 1928, nel '43 ha appena 15 anni e frequenta ancora la scuola. Vive con la famiglia nella Rocca sforzesca, dove il padre svolge funzione direttiva presso le carceri della città.
Parlando della sua infanzia, l'intervistato racconta come in casa sua, pur nell'indiscussa fedeltà al fascismo, la politica non fosse un argomento particolarmente sentito e dibattuto, mentre ricorda la forte propaganda politica fatta dal regime nelle scuole e tramite l'Opera Balilla, all'interno della quale tutti i bambini della sua età venivano inquadrati. Ricorda chiaramente l'esaltazione popolare per la conquista dell'Etiopia e poi, come al momento dell'entrata in guerra dell'Italia, molte persone la volessero quella guerra, rivendicando le presunte ingiustizie subite dal paese ad opera degli avversari.
La notizia della caduta del Fascismo gli arriva per radio, e nonostante lo sbarco in Sicilia fosse già avvenuto, la cosa lo sorprende cogliendolo impreparato; "non ci si pensava a quelle cose". Non lo sorprese invece il fatto che nessuno dei gruppi rionali fascisti di Imola reagì all'evento, perché "il partito fascista era al servizio dello Stato" ed era quindi logico che ne seguisse le direttive e poi … " si sapeva che la gente era stanca".
La sua reazione all'armistizio è invece diversa. A.Z. racconta che il suo disaccordo con la scelta del governo Badoglio fu immediato e che la sensazione di smarrimento iniziale, che pur lo colse all'apprendere la notizia, fu presto superata: "non si doveva venir meno agli impegni presi, si doveva continuare la lotta". Per lui era una questione d'onore e si sarebbe sentito un traditore scegliendo diversamente. Fu così che A.Z., con i tedeschi che attraversano veloci la via Emilia, e spronato dalle manifestazioni che si organizzano nella città a favore della nascente RSI, decide di unirsi ad un gruppo di altri 200 giovanissimi volontari imolesi che partono con la speranza di andare a combattere al fronte, arruolandosi nella Guardia Nazionale Repubblicana: "eravamo giovani, non pensavamo … non sapevamo niente di programmi politici, non volevamo tradire la Patria".
E' interessante notare come nelle parole dell'intervistato ritornino continuamente le medesime, chiare motivazioni della sua scelta: ciò che gli appare inammissibile non è la fine ed il fallimento del fascismo, ma il tradimento implicito nell'armistizio: in primo luogo verso la Patria, la bandiera e il senso dello Stato che gli sembra sfaldarsi, così come si è già sfaldato l'esercito.
Non nasconde, però, l'ammirazione per i tedeschi, considerati come dei veri e propri guerrieri, armati bene e molto pugnaci. E probabilmente, è imitando loro che il ragazzo imolese A.Z. spera di riaffermare l'onore "perduto" della Patria. Lui vuole andare al fronte: la X MAS, già impegnata in combattimenti attorno ad Anzio, è il suo mito, mentre non ha certamente parole d'ammirazione per le costituite Brigate Nere: la guerra civile e la lotta contro i partigiani, altri italiani come lui, non lo interessa, anzi ha un moto di rifiuto di fronte a questa prospettiva.
E finalmente, dopo l'addestramento e un periodo di scarso impegno operativo lontano dal fronte ("I tedeschi continuavano a diffidare; l'ordine era quello di difenderci da tutti quelli che ci sparavano addosso."), quando il disperato bisogno di uomini fa superare ai tedeschi anche le ultime reticenze circa l'affidabilità degli italiani, A.Z. ed i suoi compagni vengono schierati in linea sull'Appennino bolognese. Siamo nella primavera del '45: la fine del conflitto ormai è vicina, ma è con evidente orgoglio che A.Z. racconta come, dopo giorni di durissima battaglia, siano i giovani ed inesperti italiani a resistere ancora, mentre, ai loro fianchi, le unità tedesche già si sono ritirate sotto il fortissimo fuoco americano.
Riguardo alla sua scelta A.Z. dichiara di non aver avuto rimpianti, nonostante le immaginabili difficoltà del dopoguerra che lo costrinsero ad un periodo di "esilio" in Francia, presso un suo parente. La cosa che però lo ha infastidito di più è il fatto che molti degli ex - sedicenti fascisti imolesi, che quando era un ragazzino lo esaltavano e gli facevano i complimenti, ora si volgevano dall'altra parte pur di far finta di non vederlo. Quella scelta ha profondamente cambiato la sua vita e A.Z. ritiene che, confrontandola con le altre fatte in seguito, nessuna abbia avuto un peso così determinante.

E' sorprendente notare, come le stesse motivazioni che indussero A.Z. a compiere la sua scelta, ritornino puntualmente, espresse, quasi con il medesimo linguaggio, nel bello e coraggioso libro La fine di una stagione, del prof. Roberto Vivarelli (nato a Siena nel '29, poi docente di Storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa), dove, a settant'anni ormai compiuti, egli ci parla, con straordinaria lucidità e partecipazione delle motivazioni personali ed ideali che lo spinsero, a soli 14 anni, ad aderire alla Repubblica di Salò. Certamente la massiccia e retorica propaganda fascista nelle scuole, ma ancor più la morte del padre, ucciso dai partigiani serbi sul fronte jugoslavo, e la decisione del fratello maggiore di entrare nella X Mas, influirono in modo sostanziale, com'egli stesso ammette, sulla sua scelta di arruolarsi, nell'estate del 1944, nelle Brigate Nere di Pavolini, che lo portò a vivere i mesi della guerra civile fra attentati gappisti (GAP - Gruppi di Azione Patriottica) e rastrellamenti contro i partigiani. Ma sono i valori dell'onore e dell'amore verso la Patria, uniti ad un profondo e malinteso, dico io, senso del dovere, che, più di ogni altra ragione, producono nell'animo del giovane toscano la sensazione, gradualmente maturata nel corso dell'estate del '43, di un vero e proprio tradimento, consumato del tutto con la firma dell'armistizio, sia verso l'ammirato alleato germanico, sia in generale verso quella Patria per la quale suo padre ha invece dimostrato, con il sacrificio della sua stessa vita, l'amore e la fedeltà che le portava. Sono questi sentimenti, che Vivarelli non esita a definire "risorgimentali" più ancora che fascisti che lo portano a dirigere tutto il suo entusiasmo, il vigore giovanile, la voglia di fare , verso la Repubblica di Salò. L'idea di combattere per un'ideale, il porre in primo piano valori come il dovere e la patria e quindi il prevalere dell'azione su tutto il resto, giocarono un ruolo fondamentale in questa scelta. Vivarelli era uno spirito vivo, un volontario, era pronto a morire.


Ora, secondo la mia opinione, il punto fondamentale sta nel riuscire a capire ed immedesimarsi nella situazione in cui si trovava il giovane Roberto l'8 settembre 1943 e dare il giusto valore ai pensieri e alle meditazioni riportate in questo libro, alla luce di più di cinquant'anni di riflessione. Riporto qui alcuni estratti dell' epilogo del libro, che giudico particolarmente importanti per meglio comprendere la maturazione dell'autore:"…Che la parte nella quale mi ero ritrovato a militare non fosse quella moralmente giusta, lo avevo già capito poche settimane dopo la fine. Nell'estate del 1945, a Milano, le autorità alleate proiettarono in alcuni cinema del centro una serie di documentari sui campi di concentramento tedeschi. Non avrei neanche potuto immaginare che i tedeschi, quegli alleati verso i quali avevo ritenuto si dovesse rimanere fedeli, fossero capaci di tali atrocità ...[Tramite] la lettura regolare del "Mondo" di Mario Pannunzio, che cominciò a uscire nel febbraio del 1949... [e] la collezione completa del "Politecnico" di Vittorini…si venne formando una mia cultura. In questa cultura non c'era più posto per il fascismo; ma non perché io fossi cambiato e il mio modo di sentire non fosse più quello di un tempo. In realtà, allora e sino ad oggi, io credo di essere rimasto del tutto fedele, nel fondo, a quegli insegnamenti appresi sin da bambino in famiglia, e conformi ad un quadro ottocentesco, che mi è ancora caro... Ciò che gradualmente cambiò' fu la mia percezione dei fatti che avevo almeno in parte vissuto, sicché, senza in alcun modo mutare il mio quadro di valori e il mio stato d'animo, cioè la valutazione di ciò che è bene e ciò che è male, cominciai a giudicare quelle esperienze assai diversamente da come le giudicavo prima."
"… vi possono essere tra coloro che sono stati fascisti persone meritevoli del massimo rispetto, così come ci possono essere persone indegne di ogni stima tra coloro che il fascismo lo hanno combattuto, trovarsi dall'una o dall'altra parte della barricata dipende il piu' delle volte dalle circostanze: le ragioni della vita non coincidono con quelle della storia (la sottolineatura è mia)…A qualcuno che oggi mi chiedesse se sono "pentito" di avere combattuto nelle file della disprezzata Repubblica di Salò, risponderei che non soltanto non sono pentito, ma ne sono a mio modo orgoglioso, pur essendo oggi consapevole che la causa era moralmente e storicamente ingiusta. No, di quella scelta non mi pento affatto, e ciò per almeno due ragioni. In primo luogo, non mi dispiace essermi trovato dalla parte dei vinti, e tanto più avendo fatto la mia scelta quando era già prevedibile come sarebbero finite le cose. Certi debiti di fedeltà vanno pagati anche se costa la sconfitta. E poi trovarsi dalla parte dei vinti ha i suoi vantaggi: è una buona lezione di modestia. Costringe ad un approfondito esame di coscienza, o almeno lo consente assai di più che non il trovarsi dalla parte dei vincitori… In secondo luogo non sono pentito, e anzi rifarei tutto quello che ho fatto, semplicemente perché la mia personale storia non mi consentiva altra scelta."
"Gli esseri umani sono, sempre, solo relativamente liberi, perché non sta a noi scegliere quando, come e dove si nasce, quando, come e dove si muore. Le situazioni nelle quali ci veniamo a trovare dipendono, il più delle volte, da circostanze di cui non siamo responsabili, ed è all'interno di queste circostanze che ci è concesso di offrire la nostra opera, cioè di fare la nostra parte. Nello svolgere quest'opera, ciascuno è responsabile della propria condotta, e in ciò siamo effettivamente liberi. Ma sul piano della vita pubblica solo a posteriori sapremo, il più delle volte, se la parte nella quale ci siamo trovati ad agire, la parte che ci è stata data, è quella che, più tardi, la storia dichiarerà giusta o sbagliata. Allora dopo l'8 settembre 1943, io feci semplicemente quello che ritenevo il mio dovere, e credo che basti."La maturazione di Vivarelli, in senso antifascista c'è poi stata; una maturazione morale oltre che politica. Ma allo stesso tempo l'autore non si dichiara "pentito", anzi, ritiene quella scelta fondamentale per il suo successivo percorso, proprio perché stare dalla parte dei "vinti" gli ha dato modo di riflettere più a fondo che se fosse stato vincitore; a quel tempo, la sua storia personale non gli avrebbe, del resto, consentito altra possibilità e sembra quindi concludere che sia lo stesso osare una scelta in coerenza con se stessi la condizione necessaria di ogni vera maturazione, perché senza il peso dell'errore commesso la sua sarebbe stata certamente più superficiale e meno convinta. E', insomma, l'onestà dell'intenzione che da un lato, kantianamente, lo assolve, e dall'altro gli permette di crescere.
Posto in questi termini, e riferito a dei ragazzini quali erano Vivarelli e A.Z. nel 1943, il discorso mi sembra, in linea di massima, accettabile; certo è che radicalizzarne troppo la portata, riferendolo anche a uomini maturi che avevano avuto modo di conoscere bene cosa era il fascismo, mi pare fargli perdere parte della sua consistenza, almeno di non dare per scontati la totale impotenza della ragione critica e una considerazione radicalmente fatalista del destino umano. Ciò non toglie che condivida appieno come il "trovarsi dall'una o dall'altra parte della barricata dipende il piu' delle volte dalle circostanze", e come non sempre "le ragioni della vita non coincidono con quelle della storia"; ritengo quindi giusto distinguere tra il valore di chi sceglie e quello della scelta da lui fatta. Ne consegue che se la riabilitazione di alcuni degli ex - repubblichini è, per me, ora possibile, anzi auspicabile, certamente resta inammissibile giustificare, con essi, anche il fascismo.
Ho, comunque, apprezzato moltissimo questo libro, per il coraggio dimostrato dall'autore, per il fatto che mi ha mostrato un punto di vista completamente diverso dal mio, per la possibilità che mi ha dato di riflettere sul tema della scelta e credo che non ascoltarne le ragioni in nome di un incorrotto antifascismo, come da alcune parti si è tentato di fare, sarebbe un atteggiamento paradossalmente "fascista".

PARTE SECONDA

"La morte della Patria"

Contemporaneamente alla preparazione di questa mia breve ricerca, si è aperto sui principali quotidiani italiani ("Il Corriere della Sera" e "La Repubblica" dei primi di marzo 2001), un importante dibattito intorno al significato che l'8 settembre assunse per la storia della nostra identità nazionale. Esso si è sviluppato attorno all'ipotesi, sintetizzata nel titolo di "Morte della Patria" (ispirata dal prof. De Felice, ma compiutamente formulata dal prof. Galli della Loggia), che, quella data fatidica, segnò la fine del già ambiguo sentimento patrio degli italiani.
La diretta pertinenza che tale discussione ha con la mia ricerca, mi ha perciò indotto a introdurla nel lavoro che andavo elaborando. Senza la pretesa di proporre soluzioni del problema, ho però ritenuto utile, riassumere le posizioni dei così detti "teorici della morte della Patria" e raccogliere i più importanti interventi apparsi sulla stampa, nella convinzione che le storie di vita fin qui raccontate, poste in questa prospettiva, possano acquistare, agli occhi del lettore, un più compiuto significato storiografico.

I teorici della morte della Patria

Renzo De Felice in un suo libretto - intervista intitolato Il rosso e il nero (1995), che ha fatto molto discutere, ha riassunto le sue considerazioni intorno al fascismo, all'antifascismo e alla questione - recentemente sollevata - della perdita del senso dell'identità nazionale degli italiani a seguito dell'8 settembre. Le sue argomentazioni sono piuttosto complesse e derivano dalla sua lunga ricerca storiografica su Mussolini ed il fascismo; le riassumeremo per punti e solo per la parte che attiene al nostro discorso.

a) Secondo De Felice, con l'8 settembre 1943 si sarebbe consumata, nella coscienza popolare degli italiani, una catastrofe ideale che avrebbe "minato per sempre la memoria collettiva nazionale". Non lo dice esplicitamente nella sua intervista, ma il lettore finisce per intendere che, secondo lui, sotto il fascismo (forse proprio per merito del fascismo?), gli italiani maturarono effettivamente un senso di appartenenza nazionale. Lo si inferisce da argomentazioni di questo genere: "il sentimento comune degli italiani, alla fine degli anni Trenta, era di totale fiducia per Mussolini; controllando bene le cifre, si scopre che la partecipazione volontaria alla seconda guerra mondiale fu maggiore che nella Grande Guerra."

b) La Resistenza fu principalmente opera di una minoranza, ed ebbe oltretutto scarso valore militare. De Felice a questo proposito entra nel merito delle cifre; "…ho pensato di fare un conto, approssimativo ma significativo per poter delimitare il numero degli individui coinvolti dall'una o dall'altra parte: sono arrivato a 3 milioni e mezzo / 4 milioni, mettendo insieme familiari stretti, parenti lontani e amici vicini. Pochi, rispetto ai 44 milioni di persone che abitavano allora l'Italia." Questa argomentazione viene poi usata per contestare il fatto che la Resistenza possa aver riscattato o almeno compensato la disfatta morale dell'8 settembre e per sostenere, collateralmente, che la retorica della Resistenza è stata creata dai partiti "antifascisti" del dopoguerra.

c) Secondo De Felice l'attendismo fu la reazione più diffusa degli italiani nel periodo compreso tra l'8 settembre '43 e il 25 aprile '45, dando così luogo alla formazione di una ampia "zona grigia" di cittadini il cui obiettivo prevalente era quello di salvare la pelle e aspettare la pace. De Felice usa il termine "opportunità" invece di opportunismo. Scrive lo storico: "la gran massa degli italiani, sebbene furono pochi quelli che riuscirono a non essere coinvolti, non solo evitò di prendere una chiara posizione per la Resistenza, ma si guardò bene dallo schierarsi a favore della Rsi". Persa la fede nella patria, gli italiani sembrano ora, nella visione di De Felice, una massa informe dalla corta prospettiva morale, pronti per essere ulteriormente ingannati dai partiti antifascisti.

d) Il ruolo della Resistenza viene ulteriormente squalificato in base agli esiti successivi: "Dopo il 25 aprile, non fu infatti la Resistenza ad andare al potere, bensì saranno "due partiti nuovi", a conquistare il consenso delle masse. Dietro di loro due grandi potenze: la Russia di Stalin e il Vaticano di Pio XII ". Indubbiamente De Felice accusa gli storici dell'antifascismo di avere creato di sana pianta il mito della lotta di popolo.

e) Questo complesso di eventi avrebbe determinato la mancanza di senso della nazione negli italiani di ieri e di oggi.

f) In un certo senso anche De Felice concorda con l'insufficienza della forma giuridica nel determinare la fondazione del nuovo patto nazionale. Afferma infatti "Il Patriottismo della nazione e il Patriottismo della Costituzione, per me non sono in contraddizione. Solo che senza la Nazione non ci può essere Costituzione, vale a dire i valori che danno corpo al Patriottismo della Costituzione sono dei valori espressi dalla storia, dalla cultura, dalle vicende di un determinato paese non da una astrazione giuridica." De Felice in un certo senso difende la Costituzione repubblicana: ciò che è venuto a mancare in Italia - è la Nazione. "Se c'è colpa non è della Costituzione. E' dello scarso patriottismo dei partiti italiani, da allora a oggi."


Posizioni molto simili a quelle di De Felice sono state espresse da Ernesto Galli della Loggia, nel suo libro La morte della Patria. Con maggiore consequenzialità, ma anche con maggiore veemenza polemica, egli sostiene:" L'espressione "morte della patria" mi sembra la più adatta per definire la profondità, la ricchezza di implicazioni, in una parola la qualità tutta particolare che ha avuto in Italia la crisi dell'idea di nazione in conseguenza della seconda guerra mondiale". Si tratta dunque di una radicalizzazione della visione di De Felice: la morte della patria è un concetto appropriato " perché in essa molti italiani vedono e sentono coinvolto lo stesso vincolo di appartenenza ad una medesima comunità nazionale, nonché il senso di tale vincolo"

Quali furono le cause e la dinamica della così detta "morte della patria"?

Galli della Loggia muove dalla premessa secondo cui, nella storia d'Italia, l'idea di nazione non si è sviluppata spontaneamente, ma è stata introdotta attraverso una sorta di "nazionalizzazione" delle masse prodotta dallo Stato unitario, per cui il concetto e il sentimento di patria per gli italiani erano ideologicamente e strettamente intrecciati alla presenza dello Stato.

Due fenomeni convergono dunque sull'8 settembre:

la crisi e la scomparsa dello Stato, in conseguenza delle modalità della sconfitta bellica;

"la sensazione diffusa in moltissimi abitanti della penisola che la sconfitta, in realtà è stata causa e insieme prodotto e manifestazione di qualcosa di molto grave e profondo: di una paurosa debolezza etico - politica…degli italiani." In altri punti si parla di "intima gracilità dell'organismo e della tempra nazionali"

"Emerge dunque un dato nella sua sostanza pre o meta - politica, difficilmente collegabile in modo diretto e significativo al fascismo e ai guasti della dittatura", per cui la crisi politico - militare non sarebbe del tutto spiegabile con le sole responsabilità del fascismo, ma facendo riferimento a un difetto nazionale d'origine: "la crisi politico - militare presenta una mancanza di capacità e di efficienza degli apparati amministrativi e tecnici, la quale riflette a propria volta un deficit di competenza unito a un vuoto spirituale, di carattere, che trascendono il regime e mettono in gioco, la credibilità della sfera pubblico - statuale del Paese." Galli della Loggia tenta quindi di radicare l'insufficiente identità italiana in una dimensione quasi antropologica, una dimensione profonda, non facilmente aggirabile.
Infine della Loggia sembra seguire uno schema che si avvicina a quello di De Felice: gli italiani, traumatizzati dalla rivelazione della loro debolezza costitutiva, sarebbero caduti nelle mani della partitocrazia che avrebbe costruito la retorica antifascista, ma non avrebbe posto rimedio alla debolezza dell'identità nazionale.

Ciampi e la Patria: è polemica!

Il Presidente della Repubblica ha il diritto di intervenire sulle questioni della storia patria. E' uno degli argomenti centrali della risposta, cortese ma molto ferma, che Carlo Azeglio Ciampi ha riservato alla lettera polemica indirizzatagli dallo storico Ernesto Galli della Loggia sulla "morte della patria", pubblicata sul Corriere della Sera il 4 marzo 2001 e riportata qui sotto. A far scattare il duello storiografico tra il Presidente e il Professore sono stati gli argomenti riportati in un articolo apparso su Repubblica il giorno prima, con cui Ciampi, al ritorno da Cefalonia (dove è stata commemorata l'eroica resistenza di 6500 soldati italiani trucidati dai nazisti dopo l'8 settembre 1943), aveva contestato la validità di quella formula, scelta in diversi saggi da Galli della Loggia per spiegare la storia italiana dall'armistizio in poi.
Ma per Galli della Loggia non risulta del tutto legittimo quell'intervento. " Non avrei mai immaginato, scrive tra l'altro lo storico, di esser costretto un giorno a dover discutere i risultati della mia ricerca con il capo dello Stato, di dover rendere conto a lui di quei medesimi risultati, di doverli difendere dalle critiche della più alta carica politica del mio Paese". Quasi un'accusa d'ingerenza politica, se non di un indebito condizionamento della libertà di ricerca.
Anche per questo il presidente ha voluto rispondere di persona , e senza lasciare passare neppure ventiquattro ore, rivendicando il diritto di ogni cittadino, compreso il Capo dello Stato di discutere i risultati di una ricerca storica e confermando con ancor maggiore forza la sua posizione: ovvero, che la tesi della "morte della patria", secondo cui il senso di un'appartenenza nazionale degli italiani sarebbe andato distrutto con l'armistizio dell'8 settembre e la successiva fuga del re, tradisca tanta parte della storia di quegli anni, nonché gli innumerevoli atti di coraggio e di eroismo compiuti da tanti cittadini comuni proprio in nome della fedeltà alla patria.
Soprattutto su questo Ciampi si è soffermato, sia nella commemorazione dei caduti dell'isola dell'Egeo, sia nel suo colloquio con Mario Pirani su Repubblica: " Fu la fedeltà ai valori nazionali e risorgimentali che diede compattezza alla scelta di combattere…Ho voluto ricordare che la rottura dell'Italia con il fascismo non si è prodotta l'8 settembre, ma il 25 luglio, quando Mussolini venne defenestrato".
Negli articoli di Giorgio Bocca e di Eugenio Scalfari, anch'essi di seguito riportati, viene rafforzata la posizione presa dal Capo dello Stato e non mancano forti critiche al "cattedratico" Eugenio Galli della Loggia.